Dieci novembre. Alle sei del mattino la città quasi dorme ancora. Il porto no. E con lui tutti i traffici che costantemente lo attraversano. In questo flusso incessante passano ogni anno tonnellate di proiettili, bombe, mezzi corazzati e cannoni. Le guerre combattute a migliaia di chilometri di distanza hanno le loro radici qua, negli snodi logistici del commercio globale. Genova è parte di questa rete, e le sue banchine sono le propaggini del fronte.
Siamo in cinquecento stamattina, davanti a questo porto che oggi qualche ora si dovrà fermare. La chiamata del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) è arrivata puntuale: dal 2019 i portuali genovesi denunciano e intralciano in ogni modo possibile l’economia delle armi che viaggiano senza frontiere, oscurate tra milioni di container. Ieri andavano in Yemen, oggi vanno verso Israele. «In questi anni abbiamo seguito, tracciato e bloccato la nave Bahri, che porta armi e mezzi corazzati in Medio Oriente e in India. Ma a Genova opera anche la Zim, la compagnia israeliana di shipping che rifornisce Tel Aviv. Il significato della nostra lotta prosegue quello del movimento operaio e internazionalista che ha sempre cercato di bloccare l’economia dello sfruttamento. Qui passano le armi e i profitti di chi le guerre le rende possibili. Questo è un momento, un passaggio che può e deve servire a costruire un movimento più ampio di opposizione alla guerra, nel segno della solidarietà internazionalista». A dirlo Christian, portuale, che rilancia: «Credo che questo possa essere il modo migliore per rispondere a tutti i lavoratori palestinesi che ci chiedono di dissociarci pubblicamente da questo massacro. Ci chiedono di bloccare l’economia che rende possibile la guerra. Ci chiedono di farlo qua e ci chiedono di farlo anche nelle scuole e nelle università. È un invito per gli studenti ma anche per chi ci lavora. E questo appello, questo grido d’aiuto è già stato raccolto in molte parti del mondo, con università occupate in California e Australia; i portuali di Barcellona hanno incrociato le braccia, rifiutando di partecipare alle operazioni di imbarco e sbarco di carichi bellici; e poi ancora manifestazioni in Inghilterra e in Belgio. È necessario unirsi con tutte quelle forze che si stanno mettendo in gioco per fermare la guerra».
Il presidio blocca due varchi portuali, i principali per quanto riguarda il traffico passeggeri e l’ingresso al porto di Sampierdarena, dove in questi anni hanno attraccato le navi delle armi. Col passare dei minuti, mentre il sole sorge e inizia a scaldare timidamente, la manifestazione si irrobustisce. A metà mattinata, mentre un nutrito gruppo di solidali resta in presidio, si stacca il corteo che attraversa rapidamente lo snodo logistico di San Benigno per arrivare sotto la sede della Zim, dove le intenzioni diventano parole, cori, e promesse. La polizia in tenuta antisommossa sbarra l’ingresso dell’edificio. Vola della vernice rossa. Ora le macchie color sangue accomunano gli anonimi muri di questo edificio con i lucidi scudi del reparto mobile. «La controparte esiste e si muove – spiega Riccardo, Calp –. Oggi hanno provato a trovare delle soluzioni alternative per non far fermare il porto, ma il nostro blocco è stato importante. In questo momento dobbiamo alzare il livello delle nostre iniziative. Bisogna stare fuori, per le strade, tutti i giorni. Noi ci siamo».
La giornata di lotta prosegue davanti ai varchi portuali. La città si è svegliata infine con i suoi grigi traffici quotidiani, il porto no. «Oggi è stato importante essere qui – conclude Riccardo – perché dobbiamo attivarci e proseguire la battaglia che abbiamo raccolto dai compagni e dalle compagne che l’hanno portata avanti prima di noi». E poi la chiamata che varca i confini portuali, per legare le lotte attraverso i quartieri «che in molti fanno tutti i giorni, magari in ombra, senza mettersi in mostra, ma diventando il sale di questa battaglia». (collettivo sale)
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