da: WOTS Magazine, piattaforma di informazione critica e per la divulgazione della ricerca in ambito sociale e culturale
L’inizio della presidenza di Donald Trump verrà ricordato non solo per le scelte radicali del neo-presidente e per le sue provocazioni, ma anche per la serie di proteste che la sua elezione ha innescato negli Usa e nel mondo. Se ci astenessimo da qualsiasi giudizio politico dovremmo raccontare la storia di un presidente regolarmente eletto in una delle più efficienti democrazie mondiali, e che sta rispettando le sue promesse elettorali attuando il programma politico per cui è stato votato da oltre sessantadue milioni di cittadini. Cosa c’è allora di così strano? Perché sembra che il mondo e gli americani in primis siano contro di lui?
Pochi giorni dopo il voto, intervistando un noto giornalista italiano per La Voce di New York, ragionavamo sull’ipotesi che Trump potesse rappresentare davvero una scheggia impazzita, un errore del sistema. Questo avrebbe spiegato in parte l’evidente presa di posizione dei principali media mainstream e dei capi di stato e di governo occidentali a favore della Clinton, ma anche la netta opposizione all’interno dello stesso Partito Repubblicano. Senza voler erigere il neo-presidente a paladino dei lavoratori, la domanda che ci ponevamo era: Trump ha davvero tutti contro? Le prime nomine presidenziali (ben tre ex dipendenti Goldman Sachs: Stephen Bannon, Steven Mnuchin e Gary Cohn) hanno subito tolto alcuni dubbi sull’ipotesi di una rottura con l’establishment politico e soprattutto finanziario statunitense.
Rimangono tuttora dei grossi punti interrogativi sulla politica internazionale che gli Stati Uniti adotteranno nei prossimi mesi. Trump, per esempio, ha dichiarato esplicitamente che è stato un errore eliminare Saddam Hussein e Gheddafi perché questo ha destabilizzato ulteriormente il Medio Oriente, aggiungendo che Assad non è un “good guy” ma che i combattenti antigovernativi in Siria sarebbero peggiori. Posizioni apertamente in contrasto con le scelte Usa degli ultimi anni in materia di politica estera. Rimane poi lo spettro ingombrante di Putin che continua ad aleggiare sulla Casa Bianca: dopo il dossier pubblicato senza un’effettiva verifica delle fonti da BuzzFeed e CNN – accusati dal neo-presidente di diffondere fake news – sulle presunte attività sessuali di Trump avvenute in un albergo di Mosca, pochi giorni fa sono arrivate le dimissioni del generale Michael Flynn dopo l’accusa di essere “ricattabile dalla Russia”.
Flynn infatti è stato intercettato mentre parlava in modo amichevole con l’ambasciatore russo riguardo alle sanzioni; telefonata in un primo momento smentita dal vicepresidente Pence. Davvero un brutto colpo per l’amministrazione Trump che perde il capo del National Security Council (organo che elabora per il presidente le strategie militari e di politica estera) e si espone ulteriormente alle critiche di chi non digerisce questi rapporti pericolosi con il Cremlino, interpretati come un assoggettamento (in)condizionato a Putin. Secondo alcuni il clima assomiglia a quello del 1972 quando la presidenza Nixon fu travolta dallo scandalo Watergate, l’ipotesi di impeachment però, seppur ventilata, sembra ancora lontana. Al tempo stesso gli investitori sembrano stare senza esitazioni dalla parte di Trump: nell’ultimo mese infatti l’indice Dow Jones ha segnato un incremento del 4,02% (miglior risultato dal 1945 considerando come termine di paragone i primi trenta giorni di mandato presidenziale). Non accadeva dai tempi della Seconda guerra mondiale.
Approfittando della mia permanenza negli Stati Uniti, negli ultimi tre mesi ho potuto seguire da vicino le manifestazioni e le proteste che si sono susseguite per le strade e le piazze di New York e non solo. Il 19 gennaio scorso, il giorno precedente al giuramento del neo-presidente, è stata organizzata a New York – città storicamente democratica – la prima significativa manifestazione contro Trump dopo settimane di relativa calma. Alcune migliaia di partecipanti si sono riunite a Columbus Circle, sotto uno dei principali grattacieli costruiti da Trump a Manhattan, per ribadire la loro contrarietà alle politiche annunciate dal neo-presidente, ritenute sessiste, xenofobe e razziste.
Ho raccolto tra la folla le voci di alcuni manifestanti; Henry, per esempio, è venuto per dimostrare che la maggioranza degli americani non accetta questo presidente: «L’influenza di Bannon inoltre è davvero pericolosa, gli ultimi anni con Obama hanno rappresentato per la comunità LGBT un passo avanti nella conquista dei diritti, ora il rischio è quello di tornare indietro». Ken, professore della New York University non ha dubbi: «La democrazia è in pericolo a causa di Donald Trump e Steve Bannon, questo è fascismo, questa non è l’America».
Attivisti per i diritti civili e alcuni personaggi dello spettacolo si sono alternati sul palco allestito per l’occasione per rilanciare l’idea che bisogna resistere a ogni costo contro questa nuova ondata di populismo e fascismo. Tra gli altri sono intervenuti De Niro, Mark Ruffalo, Alec Baldwin, Cher ma il volto più noto rimane quello del regista Michael Moore, uno dei principali trascinatori della protesta. «This land is your land» (dal testo della canzone di Woody Guthrie), «No Trump, no KKK, no fascist Usa», «Ehy ehy! Oh oh! Donald Trump has got to go!», questi gli slogan scanditi durante la protesta. Tanti i cartelli che vedono ritratti insieme Trump e Putin abbracciati e persino amanti avvolti in bandiere rosse con falce e martello. (fabrizio rostelli – continua a leggere)
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