
Vent’anni fa l’arbitro ecuadoriano Byron Moreno fece uscire l’Italia dal mondiale contro la Corea del Sud. Questa e le Galapagos sono spesso le uniche conoscenze che si hanno sull’Ecuador in Italia. In generale nei media mainstream di America Latina si parla poco o niente, nonostante sia da sempre un laboratorio politico e culturale e sia la casa del nostro polmone verde che viene difeso in prima linea: poche settimane fa in Brasile due attivisti, uno britannico e l’altro brasiliano, sono stati uccisi per i loro reportage sulla pesca abusiva in Amazzonia.
L’Ecuador poi è periferia della periferia, un fazzoletto di terra tra i due giganti più famosi: Colombia e Perù. Terra grande circa quanto l’Italia, ricchissima ed eterogenea, ha a poche ore di distanza la costa del Pacifico, l’altipiano andino e la selva amazzonica, ognuno col suo microclima e le sue popolazioni originarie e non: Puruha, Shuar, Waorani, Achuar, Cofan, Kichwa, Montubios, Mestizos… Una periferia poco importante geo-politicamente, storicamente sottomessa prima dalla conquista e dalla religione, infine dalla finanza internazionale (in Ecuador la moneta corrente è il dollaro) e dalle grandi compagnie multinazionali che spaziano dalle banane al petrolio (ovviamente anche la nostra Eni).
In questo contesto è maturato il Paro Nacional, sciopero a oltranza indetto dalla Conaie, la Confederazione delle nazionalità indigene (l’Ecuador è riconosciuto come stato plurinazionale dal 2008), durato ben diciotto giorni, dal 13 al 30 giugno 2022. Attualmente il presidente della repubblica presidenziale è Guillermo Lasso, banchiere di estrema destra a capo del Banco Guayaquil, uno dei principali del paese, multimilionario ed evasore – il suo nome figurava nell’elenco dei Pandora Papers –, che difende gli interessi dei ceti più abbienti e del Fondo monetario internazionale. Dopo un infruttuoso dialogo durante il primo anno di presidenza, la Conaie esige con il Paro il rispetto di dieci punti programmatici che riguardano principalmente il calmieramento dei prezzi, in particolare di combustibile e beni di prima necessità, lo stop a ulteriori privatizzazioni, la garanzia del diritto alla salute e all’educazione nelle comunità indigene, il blocco dell’industria estrattiva in Amazzonia. È sicuramente un forte scontro di classe ma anche razziale: in Ecuador i due aspetti sono particolarmente complementari.
Lo sciopero su scala nazionale e di lunga durata non è una novità nella storia del paese, anzi contribuisce all’interno del forte movimento indigeno ad alimentare il mito della lotta “di padre in figlio” e la consapevolezza che storicamente questa appropriazione temporanea delle strade sia stata e sia tuttora l’unica maniera per reclamare diritti, da cinquecento anni a questa parte. Effettivamente la storia dell’Ecuador degli ultimi trent’anni conferma questa visione: storico fu il cosiddetto Levantamiento Indigena del 1990, durato dodici giorni, sempre a giugno, che migliorò considerevolmente le condizioni di vita della comunità indigena, fino a pochi decenni prima ancora vincolata alle haciendas dei ricchi proprietari terrieri bianchi, tuttora vittima di razzismo istituzionale e di violenza strutturale da parte dello stato. La grande maggioranza della comunità indigena lavora nell’agricoltura e si stima che l’ottanta per cento del cibo nelle tavole degli ecuadoriani sia frutto del loro lavoro; sono ancora tragicamente alti i dati riguardanti la denutrizione infantile, l’alcolismo e la povertà assoluta all’interno delle comunità.
È assai diffuso nella società civile di maggioranza mestiza (meticcia) un certo tipo di razzismo blando che vede il nativo come un “buon selvaggio”, innocuo e quasi tenero nel suo folclore, che però a volte perde la testa e lascia emergere la sua natura delinquenziale, diventando violento, cattivo, addirittura pigro perché non vuole lavorare e costringe anche gli altri a non farlo. In poche parole, le popolazioni indigene vengono infantilizzate con paternalismo e viene loro negata coscienza di razza e di classe, il loro essere una soggettività politica autonoma e consapevole. Nei media mainstream e nei discorsi da bar gli indigeni e le indigene sono soggetti deboli e ignoranti, manipolati dai loro leader, costretti a partecipare alle manifestazioni dove al contempo danno prova del loro essere selvaggi. Nella realtà, tra le persone in prima linea nei giorni dello sciopero, vi erano numerosi momenti di scambio e discussione sul neoliberismo, la dollarizzazione, e anche un certo scetticismo riguardo i leader della protesta.
Le comunità indigene hanno prima bloccato tutte le strade del paese e sono poi scese in città, dove numerose sono state le scene di guerriglia urbana. Nelle province più povere del paese i manifestanti hanno simbolicamente occupato i palazzi di governo, creando di fatto un temporaneo vuoto di potere. La battaglia si è poi spostata nella capitale Quito, dove il presidente Lasso, sempre più solo, ha indetto lo stato d’eccezione, con coprifuoco e divieto d’assembramento come durante il Covid, il che si aggiunge alla legge “per l’uso progressivo della violenza da parte delle forze dell’ordine” approvata poco prima dello sciopero. Nei cortei sono presenti anziani, donne, bambini. Leonidas Iza, presidente della Conaie e leader della protesta, è stato prima arrestato, poi liberato per incostituzionalità dell’arresto arbitrario, poi è scampato a un attentato. Il Paro del 2022 riprende idealmente le fila di quello del 2019, che durò quindici giorni e si concluse con un bilancio di dieci vittime.
A Quito alcune università, su pressione del corpo studentesco, hanno aperto le loro porte per ospitare i numerosi bus provenienti da tutto il paese. I manifestanti hanno resistito diversi giorni senza alcun bene di prima necessità, riuscendo a sopravvivere nella fredda Quito grazie alle numerose donazioni solidali di una buona fetta della società civile, ma spesso dormendo per settimane in condizioni precarie. Nonostante non sia tra i dieci punti, la piazza è unanime nell’urlare: “Fuera Lasso”, che non viene visto come interlocutore credibile e di cui si chiedono le dimissioni. Se il Paro è sicuramente e primariamente una questione indigena, numerose comunità hanno attraversato le strade come alleate e allineate alla causa: movimenti studenteschi, trans-femministi, realtà dissidenti di ogni territorio.
Uno dei centri nevralgici della lotta è la Casa della Cultura di Quito, edificio simbolico situato tra le due principali università e l’Asemblea Nacional, territorio neutrale e “casa” delle nazionalità indigene in senso figurato e letterale. Questo avamposto è stato oggetto di aspra contesa durante il Paro: nei primi giorni la polizia vi ha fatto irruzione arbitrariamente dopo una chiamata anonima in cui veniva comunicata la presenza di armi all’interno (ricorda qualcosa?). Ovviamente non hanno trovato nulla, ma il fatto è gravissimo: la polizia non entrava nella Casa della Cultura dagli anni Sessanta durante la dittatura militare. A seguito della concessione del governo, i manifestanti si sono ripresi pacificamente lo spazio, salvo venire poi nuovamente sgomberati con gas lacrimogeni e poliziotti a cavallo qualche giorno dopo, durante un’assemblea in cui erano presenti migliaia di persone disarmate, e numerosi gas hanno raggiunto bambini. Infine viene nuovamente concessa alla Conaie che la trasforma nel suo quartier generale.
Altro fatto gravissimo è che i cittadini per bene, fan di Lasso, hanno iniziato dopo qualche giorno a farsi giustizia da soli: a Tumbaco, vicino al principale aeroporto del paese, e a Riobamba nella Sierra, elementi fascisti hanno sparato contro manifestanti indigeni. Numerosi sono stati i cortei “per la pace” della Quito Bene, con bandiere bianche e applausi alle forze dell’ordine.
Il bilancio del Paro è stato in totale di nove morti, circa centocinquanta feriti e cinque dispersi, secondo alcune agenzie per i diritti umani che monitoravano la situazione. Dei nove deceduti, due si trovavano in ambulanze che per via del blocco delle strade non sono riuscite a raggiungere gli ospedali in tempo; uno è un militare vittima probabilmente di fuoco amico in circostanze poco chiare ma prontamente strumentalizzate dal governo per interrompere il dialogo con la Conaie; gli altri sette sono vittime della repressione delle forze dell’ordine durante i numerosi scontri di piazza in tutto il paese, colpiti da granate lanciate dai tetti dell’Asemblea Nacional e dai droni, dai lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo (un kichwa amazzonico a Puyo è stato colpito da un candelotto lacrimogeno in testa che gli ha penetrato il cranio prima di esplodere). Durante il Paro i media nazionali hanno occultato la realtà e chi si informa solo tramite essi è completamente all’oscuro della situazione: sa nei minimi dettagli di numerosi atti vandalici e di diciassette militari rimasti feriti senza conoscere nulla del resto. I media internazionali non ne hanno praticamente mai parlato, così Lasso non ha avuto un qualche tipo di pressione internazionale e ha potuto continuare indisturbato la mattanza.
Vista la crisi politica, l’Asemblea ha votato per la destituzione di Lasso, che si è salvato per dodici voti. Con la mediazione della chiesa cattolica e su pressione della stessa Asemblea, il governo è stato costretto a intavolare un dialogo con la Conaie, proseguito a singhiozzo negli ultimi giorni di sciopero. Durante i tavoli di discussione il presidente non si è presentato, facendo parlare il suo vice, e nei giorni più concitati delle violenze a Quito si è ritirato per presunto Covid, salvo guarire dopo soli due giorni. La Conaie è riuscita ad abbassare il prezzo del combustibile di quindici centesimi e a far interrompere numerose attività estrattive nell’Oriente Amazzonico. Si tratta comunque di una vittoria a metà: i dieci punti iniziali erano assai più radicali, e questo ha causato il malcontento di molti partecipanti, critici del compromesso raggiunto. D’altra parte però era complicato ottenere di più da un governo così reazionario – Lasso in aprile aveva dichiarato che proprio ora che il mondo smette di utilizzare il petrolio è il momento di trivellare fino all’ultima goccia per aumentare il profitto. Il Paro si è concluso con un lungo discorso celebrativo dei leader indigeni alla Casa della Cultura, e con gli abitanti di Quito che salutavano commossi i camion carichi di persone che dopo giorni tornavano nelle rispettive comunità.
Il governo ora ha tre mesi di tempo per compiere quanto sottoscritto. Dopo tre settimane di sospensione della realtà, in Ecuador si torna alla normalità, che per le oppresse e gli oppressi di questo paese significa un ritorno a una quotidianità fatta di ingiustizie e privazioni, mentre per la gente de bien è un sospiro di sollievo per la ripresa economica del paese. Una cosa è certa: il movimento indigeno in Ecuador è forte e in salute, e al netto di tutti i limiti emersi, è pronto a reclamare i propri diritti con la forza e senza timore qualora i patti non venissero rispettati, ben sapendo che non esiste alcuna pace senza giustizia sociale. Le comunità non si abbattono, d’altra parte lottano e resistono da più di cinquecento anni. (daniel damascelli)
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