Un anno fa moriva Salvatore Ricciardi. Impegnato nelle lotte a Roma fin dai primi anni Sessanta, ferroviere, è stato uno dei protagonisti dei movimenti sociali negli anni Sessanta e Settanta. In seguito detenuto per molti anni a causa della sua appartenenza alle Brigate Rosse, si è occupato fino all’ultimo di carcere. Pubblichiamo di seguito le prime pagine di una delle sue ultime opere “Esclusi dal consorzio sociale”, che si può scaricare a questo link.
Per approfondire il suo percorso e le sue battaglie consigliamo la lettura di Maelstrom (2011) e Cos’è il carcere (2015), entrambi editi da Derive Approdi.
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martedì
Agente devo uscire pe lavora’ me poi apri’.
Guardia apri, devo annà in cucina!
Guardia perché nun apri?
Guardia me apri devo andare a lavorare, … minchia non apre, guardiaaa!
Aooohh, qui chiudono le blindate e li spioncini! Guardiaaaaaa!
Apriteeeee! So’ le sei passateeee!
Guardia picchì nun apri?
Una voce urla ma più sottovoce, nun aprono perché pare che ce sta er morto.
Ma davero! E chi è morto?
Umammamia, u mortu!
Si rialza il volume delle urla.
Guardia apriiii, c’è uno che sta a morìiii! Ce fate morì tutti!!
Apriteeeee, nun ce la famo più!!!
Ora le urla si moltiplicano, escono da ogni cella e si rovesciano nel corridoio.
Guardie assassiniii!!! ce ammazzate tuttiiii!
Bastaaaa! fatece usciii!
È la mattina di un martedì primaverile in un carcere qualsiasi. Uno degli oltre 190 luoghi costruiti dallo stato per rinchiudere e annientare la personalità di donne e uomini cui viene imposto l’appellativo di delinquenti o criminali perché sono accusati di aver trasgredito le leggi.
Lo scopo dichiarato del sistema della carcerazione, è la tutela dell’ordine sociale. Dentro quelle carceri ci sono esseri umani rinchiusi in angusti spazi tra sudice mura, senza una vita sociale, né un’identità se non il marchio loro imposto di malviventi, reietti!
Ma chi s’è ammazzato?
Mammamia che massacro!!!
Guardiaaa!!! c’è uno morto alla cella affianco.
Giggi, nella cella numero 12, si muove a scatti, va verso il fondo e torna indietro, su e giù nervosamente. La parola «morto» e la parola «ammazzato» gli rimbalzano nella testa che sente prossima a scoppiare, gli duole, martella. Improvvisamente si blocca, va verso la branda e vi si butta sopra bocconi, mettendosi il cuscino sopra la testa avvolgendola fin su le orecchie, come a nascondere quelle voci.
Ahooo… ‘ndo sta er morto?
Ma che cazzooo… guardia, perché chiudi!!!
Sta bono! Hanno chiuso perché quello che stava alla 13 s’è ammazzato!
Porcccc, ma chi era?, alla 13 ce stanno in due.
Nun je la famo più….apriteeeee!!!
Minchia pecché nun apri?
Altre urla, grida, fischi, un inizio di battitura sui cancelli con pentole, che si smorza subito. Invocazioni e rimostranze che escono dalle fessure degli spioncini chiusi, si spargono per il corridoio, contenitore degli strazi e delle emozioni dei prigionieri. Suoni diversi. È una polifonia di accenti insoliti, urlati simultaneamente con vari significarti, sono improperi, bestemmie, lamenti, minacce, invocazioni di aiuto.
Nel corridoio di un carcere si incrociano le inflessioni dialettali, lo popolano, si urtano e rimbalzano per rientrare nelle celle. Sono linguaggi delle varie regioni italiane e di altri paesi da cui provengono i prigionieri rinchiusi nella sezione “A” collocata al secondo piano, lato destro del penale [1] del carcere cittadino. Si accavallano, un interrogativo in toscano trova risposta in siciliano, alle parole di scherno verso le guardie in sardo ribattono insolenze in veneto. Lo spioncino è stato chiuso dalle guardie. I prigionieri ne chiedono l’apertura.
Guardiaaaa apri!!, stamo a morììì!
Chi s’è ammazzato? Faccelo vedeeee, er morto!
Ma chi è?
Apriii lo spioncinoooo, guardiaaa!
Lo spioncino è l’elemento più importante della cella, quando è chiusa anche la porta blindata. Lo spioncino è il punto di collegamento tra la cella e il corridoio dove si raccolgono i suoni e le parole provenienti dalle altre celle. Nel corridoio, anche se deserto, si compie la micro-socialità della comunità prigioniera. Lo spioncino è il legame con l’oltre-cella, con i compagni di detenzione.
Nel gergo carcerario, tenere lo spioncino aperto definisce il comportamento del prigioniero che non dorme e non aspetta che il carcere passi, ma gli va in-contro. Il prigioniero sveglio è attento a tutto quello che succede e spesso è in grado di prevenire gli eventi. Sa ascoltare la voce del carcere, quella che non usa le parole. Una rissa che sta per scoppiare, le guardie che arrivano in gruppo per un pestaggio, o per un trasferimento improvviso, oppure per una perquisa [2] non prevista. Sta attento ai leggeri rumori del carcere, perfino ai sussurri e scopre che ogni avvenimento è preceduto da una particolare alternanza di silenzi e rumori. Il detenuto attento cerca di decifrare quel linguaggio. Se il consueto brusio nel corridoio cessa improvvisamente e si fa silenzio totale, vuol dire che sta per succedere qualcosa di brutto: arriva la squadretta [3], oppure qualcuno verrà portato alle celle di isolamento. L’attenzione ai rumori è ancor più importante quando il detenuto è rinchiuso in cella d’isolamento.
Tenere lo spioncino aperto denota la volontà di mantenere un rapporto con chi c’è nelle altre celle; può sempre arrivare una chiamata, un bisbiglio, una comunicazione.
Tenere lo spioncino chiuso, al contrario, è un brutto segno, descrive lo stato d’animo del detenuto o dei detenuti di quella cella ripiegati verso la solitudine, la disperazione, l’umore nero, il rifiuto di quel poco di “altri” che c’è in carcere. Stare con lo spioncino chiuso è come dire che si è smesso di lottare, di protestare, di ingegnarsi per evadere, insomma che ci si sta facendo la galera passivamente. Ci si è arresi.
Guardie assassiniiii l’avete ammazzato!!!
No!… s’è suicidato.
Ma chi è morto, fatecelo vede’.
Qui dentro chi more è stato ammazzato dar carcere.
Silenzio per favore! Rispettiamo l’anima di quest’uomo che si è tolta la vita, preghiamo per la sua salvezza. Restiamo in raccoglimento!
Ma chi è… ? Er cappellano der carcere?
Ma no! È quello della 18, quel calabrese che hanno carcerato perché ha criccato [4] uno di un clan ostile, ma ora quel clan è diventato il più forte e hanno giurato che quando esce, chissà quanno, lo tirano giù dalle spese. Da un po’ si è aggregato a un piccolo gruppo di evangelisti che si riuniscono a leggere orazioni in quel buco vicino alla biblioteca, il direttore gli ha concesso una ventina di metri quadri. Tutti hanno pendenze fuori e sperano che qualche cristo li aiuti.
Nel corridoio continuano a rimbalzare suoni e grida, che ora si mescolano con il parlottare di funzionari, medici e direttore intervenuti a visionare il cadavere. Al centro di tutto c’è un uomo che ha smesso di vivere appendendosi a un legaccio attaccato alle sbarre. Quando sono arrivate le guardie è stato staccato dalla corda e steso al suolo ricoperto con un lenzuolo nemmeno pulito.
Il frastuono provocato dalle urla che inondano il corridoio non si placano, il direttore e il capo delle guardie chiamano altri agenti e si affrettano a spostare il cadavere in infermeria. Il corridoio si svuota, gli spioncini restano chiusi provocando ancora urla dei prigionieri che ne pretendono la riapertura. La guardia di sezione anch’essa urla di aspettare. Poi, man mano le urla si placano e cessano del tutto, la guardia sta riaprendo gli spioncini.
La discussione concitata che usciva dalle celle e si rovesciava nel corridoio con invocazioni, richieste di aiuto e accuse rivolte al carcere, alle guardie, ma anche a un «tutti voi» imprecisato, ora queste parole rientrano nelle celle.
I detenuti delle celle vicine a quella dove un uomo si è tolto la vita sono ancora più sconvolti, c’è subbuglio nella loro pancia e baraonda nella testa. Per ogni suicidio, e ne avvengono molti in carcere [5], restano incertezze e ansie, nulla è meno spiegabile di un suicidio.
Chi riesce a infilare la testa nello spioncino, operazione non facile perché lo spioncino è uno sportello che chiude un’apertura rettangolare lunga poco meno di 40 centimetri e alta circa 20. Bisogna piegare la testa di lato, può entrare soltanto chi ha la testa stretta. Chi ci riesce, in questi casi, cessata l’emergenza, mette la testa fuori per guardare nel corridoio cosa è rimasto. E lo comunica agli altri.
Ahooo, avete visto qualcosa?, qui nun è rimasto ‘gnente.
Mica s’è tajato, mica ha lasciato er sangue, s’è impiccato.
Quarcuno lo conosce?
Le teste uscite dagli spioncini per scrutare il corridoio rientrano nelle celle e le discussioni continuano all’interno.
Alla cella 12 Niccolò si avvicina alla branda dove Giggi sta immobile con il cuscino sopra la testa e sente uscire dal cuscino un respiro affannoso, quasi un pianto. Con parole sussurrate Niccolò delicatamente lo esorta ad alzarsi, Giggi dai, alzati!, è inutile nascondersi, dobbiamo capire perché queste morti.
No, no, la morte no, risponde Giggi, un morto non lo posso guardare. Lo so, succederà a me. Io so’ er più debole, il prossimo sarò io, lo so! Già se ne so’ andati Tittolo e Cespujo. Poi tocca a me!
Interviene Marcello con un’affermazione netta, questo è il carcere, Giggi, non puoi schivarlo, lo devi affrontare.
Niccolò cerca di contrastare lo sconforto di Giggi urlandogli frasi nelle orecchie per scacciare i suoi incubi, ma che dici!?, ma quale morte, qui non deve morire più nessuno, dobbiamo muoverci, darci da fare e fermare queste morti! Basta! Daje, urla con me: bastaaa!!!
Sergio è perplesso, se, se, diciamo sempre così, protestiamo, ce beccamo pure qualche manganellata, ma poi i suicidi continuano. Tocca dacce ‘na mossa, ma non una volta sola, bisogna insistere, non possiamo fa sempre i soliti lamenti.
Marcello severo, a Sergio, se c’hai cose nuove da proporre, daje, t’ascoltiamo.
Ne parliamo dopo, replica Sergio.
Un suicidio è avvenuto a pochi metri di distanza da ciascuno dei detenuti della sezione A. Una persona suicidata è una presenza pesante in carcere, non si può ignorare come si fa quando si è liberi, ci si deve fare i conti. Ciascuno sente affacciarsi un interrogativo inquietante nella testa, perché non io? Io che vivo la stessa condizione del suicida, io che ho problemi pesanti e forse più scabrosi di quello della 13 che si è tolto la vita. Potrà succedere anche a me? Non ci sono risposte e, per lenire il morso del dubbio, i più giovani di carcere chiedono lumi ai più esperti, sperando che dicano loro ciò che vogliono sentirsi dire. Che quello era flippato, sbiellato, tranquillizzando chi non si ritiene tale.
Ciascuno di questi «esperti» ha la sua tesi. C’è chi attribuisce l’alto numero dei suicidi al sovraffollamento, chi alla mancanza di lavoro, chi alle condizioni pessime delle carceri italiane, chi alla scarsa attenzione ai rapporti con la famiglia, chi ad altre complesse motivazioni.
Poi ci sono gli «esperti» esterni che affermano di sapere con certezza perché le persone si suicidano in carcere, sono gli psichiatri. Alcune loro associazioni dichiarano che le persone che si suicidano in carcere sono infermi di mente. Affermano che la detenzione provoca la malattia mentale e di conseguenza propongono di imbottire i detenuti di psicofarmaci, con grande gioia di chi questi farmaci produce e vende. Conclusione: grande diffusione di infermerie psichiatriche che propinano psicofarmaci a oltre il 60% della popolazione detenuta.
Chi sa di carcere ha imparato che il suicidio, al contrario, è un atto consapevole, lungamente ragionato dal detenuto che esamina l’emarginazione e la solitudine imposta, valuta l’abbandono in cui è stato gettato e verifica l’impossibilità di spezzare questa catena. Se si convince che non potrà riconquistare una vita autonoma, dopo lungo riflettere, conclude che la soluzione è il suicidio, unica fuga che può permettersi con le proprie forze. Ne sono prova le lettere scritte dalle persone che si suicidano. Ma anche le lunghe chiacchierate di notte con quei detenuti che hanno tentato il suicidio.
Un’ultima considerazione: se la tesi degli psichiatri fosse vera, vuol dire semplicemente che lo stato italiano mantiene attive strutture che producono «malati di mente», quindi è uno stato criminale, un produttore di pazzi. È un crimine contro l’umanità, roba da processo di Norimberga.
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[1] Il penale in un carcere è quel settore dell’edificio penitenziario dove sono recluse le persone già condannate; invece nel giudiziario ci dovrebbero stare le persone in attesa del giudizio, appellanti e ricorrenti in Cassazione. Il sovraffollamento ha fatto saltare queste divisione
[2] Perquisa, in gergo carcerario indica la perquisizione che le guardie praticano nelle celle dei prigionieri alle prime ore dell’alba, intorno alle 5, alla ricerca di materiale non consentito. Si riferisce anche alla perquisizione corporale della persona detenuta
[3] La squadretta è un gruppo di guardie che hanno il compito di picchiare i prigionieri. Non è prevista dai regolamenti, ma esiste
[4] Criccato, tirato giù dalle spese, sono sinonimi di ammazzato
[5] I suicidi in carcere dal 2000 fino al 31 agosto 2019 sono 1.085, con una media di 55 suicidi per ogni anno; il totale delle persone detenute morte in carcere per vari motivi, negli stessi anni, sono 2.970
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