
Venerdì 9 aprile 2021, alle ore 12, è in programma una conferenza stampa a Roma, in piazza Bocca della Verità. Il titolo dell’evento è Batti il 5!. Il numero da “battere” corrisponde a un articolo del cosiddetto “Piano casa” del 2014, quel decreto n. 47 che porta la firma dell’allora ministro delle infrastrutture e dei trasporti, Maurizio Lupi, e che ha avuto il convinto sostegno del presidente del consiglio in quel momento in carica, Matteo Renzi. L’articolo 5 stabilisce che “chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non possa chiedere la residenza né l’allaccio delle utenze”. Le conseguenze di questa scelta normativa sono profonde e gravissime per coloro che le subiscono. In Italia, infatti, la residenza – porta d’accesso per eccellenza ai servizi pubblici – è uno status il cui possesso, di fatto o di diritto, è necessario per esercitare numerosi diritti.
Il Piano casa non rappresenta un episodio isolato, ma si inserisce piuttosto all’interno di un percorso di esclusione di lunga durata che è importante ricostruire brevemente per mettere in luce le implicazioni politiche e materiali degli usi – e soprattutto degli abusi – dell’iscrizione anagrafica e per rendere più evidente la portata della mobilitazione in programma.
L’anagrafe è uno strumento di gestione statistica e amministrativa della popolazione piuttosto controverso. Fin dalle sue origini, è oggetto di visioni divergenti ed è al centro di interessi politici contrastanti. Introdotta per fornire un’immagine il più possibile fedele e accurata della popolazione dislocata sul territorio – garantendo la sovrapposizione tra la sua composizione di fatto e la sua rappresentazione di diritto –, è spesso impiegata come un dispositivo di selezione dei soggetti ritenuti “meritevoli” di essere registrati a livello comunale e, quindi, di esercitare concretamente i propri diritti.
Già all’indomani dell’unità d’Italia, i primi regolamenti anagrafici, orientati a istituire un sistema di rilevazione coerente e integrato a livello statale, non riescono a raggiungere l’obiettivo di rendere obbligatoria la registrazione delle persone che hanno uno stile di vita non stanziale. Tenere traccia della presenza e dei movimenti dei soggetti più mobili si rivela per molti comuni non soltanto tecnicamente difficile, ma anche poco desiderabile. Appare chiaro da subito, in altre parole, che lo scarto sistematico tra la popolazione di fatto e la popolazione di diritto, più che il frutto di un’incapacità amministrativa, è l’effetto di scelte deliberate. La riforma dell’assistenza sanitaria del 1890, che introducendo il “domicilio di soccorso” impone ai comuni di pagare le cure mediche agli abitanti poveri, dà luogo a una tendenza piuttosto diffusa: evitare di iscrivere in anagrafe individui di bassa estrazione, di recente immigrazione o etichettati come “marginali”, che costituirebbero un peso ritenuto eccessivo per le casse comunali. Sin da allora, dunque, il nesso tra iscrizione anagrafica ed esercizio dei diritti, soprattutto sociali, si fa evidente.
Con l’avvento del fascismo, l’interpretazione dei registri anagrafici diventa ancora più restrittiva. Il regime intende limitare la mobilità interna contrastando la crescita delle città e lo spopolamento delle campagne – considerate retoricamente l’emblema della prolificità, in opposizione agli spazi urbani, luoghi della sterilità – e traduce queste intenzioni in un percorso fatto di precise scelte amministrative e legislative. Le politiche contro l’urbanesimo culminano nella legge n. 1092 del 1939, che impedisce l’iscrizione anagrafica nei comuni maggiori a coloro che non sono in grado di dimostrare la disponibilità di un lavoro o adeguati mezzi di sussistenza e consente ai prefetti di allontanare i “clandestini in patria” attraverso il foglio di via.
Il passaggio dal fascismo alla repubblica, l’entrata in vigore della Costituzione nel 1948 – il cui articolo 16 riconosce in maniera esplicita il diritto alla circolazione e al soggiorno nell’intero territorio italiano –, l’emanazione della prima norma in materia di anagrafe nel 1954 e l’abolizione della legge contro l’urbanesimo nel 1961, sembrano segnare un punto di svolta per la residenza. Da un lato è sancito il diritto alla registrazione, sia delle persone che dimorano abitualmente sul territorio sia di quelle senza tetto e senza fissa dimora. Dall’altro è affermato il dovere, da parte dei comuni, di iscrivere d’ufficio coloro che di fatto vivono nello spazio comunale e, da parte di chi si trova al suo interno, di dichiarare la propria condizione anagrafica.
Nonostante i cambiamenti avvenuti nel quadro normativo, le visioni restrittive dell’anagrafe continuano a essere rilevanti a livello politico e si traducono, negli anni, in misure e iniziative escludenti nei confronti di specifiche categorie della popolazione. La prima a essere al centro dell’attenzione è costituita dalle persone romanì. Nei loro confronti, il fenomeno dell’esclusione anagrafica è diffuso già negli anni Ottanta, come sottolineato anche da una circolare ministeriale del 1985, che individua nella registrazione il primo passo per l’integrazione di rom e sinti. Nel corso degli anni Novanta, poi, si fa evidente come a essere bersaglio dell’esclusione siano anche altre categorie: in quel periodo, il Viminale è indotto a emanare ben due circolari per specificare che negare la residenza a persone prive di un lavoro stabile, che vivono uno spazio abitativo non ritenuto adeguato, sono senza fissa dimora o sono considerate “sospette” e “pericolose” a causa dei loro precedenti penali costituisce una pratica del tutto illegittima.
L’inizio del ventunesimo secolo segna un passaggio ulteriore nel processo di esclusione anagrafica. Diversi governi in carica intervengono in maniera esplicita emanando norme giuridiche che provano – e a volte riescono – a restringere i requisiti per l’iscrizione. Il Pacchetto sicurezza di Roberto Maroni del 2009 attribuisce alle amministrazioni locali la facoltà di effettuare controlli sulle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui la persona interessata dichiara di risiedere. Le verifiche introdotte non sono obbligatorie né vincolanti, ma vengono comunque impiegate da diversi comuni come un pretesto per escludere dalla registrazione. Inoltre, la norma voluta dall’ex ministro leghista costringe le persone senza fissa dimora a dimostrare l’effettività della loro condizione, rendendole ricattabili e dipendenti dalla valutazione dei servizi sociali. Più di recente, il decreto Salvini nega il diritto all’iscrizione anagrafica alle persone richiedenti asilo. L’iniziativa dell’esponente della Lega è seguita dalla “disobbedienza” di qualche comune, dai pareri di alcune/i giuriste/i, dalle pronunce di diversi tribunali e, infine, dalla dichiarazione di incostituzionalità pronunciata dalla Consulta. Il decreto Lamorgese, emanato e convertito in legge qualche mese fa, partendo proprio da questa sentenza ribadisce che quante/i hanno fatto richiesta di protezione internazionale hanno pieno diritto alla residenza. Nel farlo, tuttavia, rafforza alcune ambiguità nella procedura di iscrizione già contenute nella normativa in materia.
Il Piano casa del 2014 si colloca a metà tra queste due iniziative. Non avendo – almeno per ora – subìto il destino giuridico della seconda, contribuisce di concerto con la prima a rendere sempre più difficoltosa la vita di chi abita in immobili occupati. Le persone a cui la residenza è negata sulla base dell’articolo 5 dovrebbero in teoria, come previsto da una circolare successiva al Piano casa, essere iscritte come senza fissa dimora. Eppure, le restrizioni introdotte dal Pacchetto sicurezza del 2009 ostacolano questa forma di riconoscimento. Il che produce effetti molto gravi, in particolare sulle persone straniere, che spesso si vedono rifiutare dalle questure – in maniera del tutto illegittima – il rinnovo del permesso di soggiorno.
Tra tutte quelle citate, il Piano casa è forse l’iniziativa legislativa che, nella forma più esplicita e diretta, svela la politicità della questione anagrafica. A essere oggetto delle intenzioni escludenti del governo in carica nel 2014 – e dei governi successivi che non hanno fatto nulla per modificare o abrogare la norma – sono soprattutto le persone che occupano immobili a scopo abitativo in forma organizzata e aggregata, dando un significato politico alla loro azione, e le/i richiedenti asilo, spesso costrette/i a cercare soluzioni abitative “informali” in assenza di una valida offerta pubblica. A queste categorie sociali il Piano casa comunica un messaggio molto chiaro, che produce importanti effetti simbolici e materiali, alimentando quel processo di precarizzazione delle appartenenze territoriali che, come si è cercato di mostrare, è un fenomeno strutturale nella storia italiana.
La mobilitazione di venerdì 9 aprile 2021 parte proprio dalla constatazione della politicità e della gravità dell’esclusione anagrafica, e in particolare del Piano casa. Inserita all’interno di un percorso di elaborazione collettiva che ha preso avvio mesi fa con un documento incentrato su Roma, è stata promossa da numerose realtà dell’attivismo politico e della società civile e da ricercatrici e ricercatori nel campo della sociologia, degli studi urbani e del diritto. L’iniziativa del 9, che sta raccogliendo in queste ore numerose adesioni da parte di soggetti collettivi e individuali, ha l’obiettivo di contestare alla radice le politiche escludenti in materia di residenza e di chiedere con forza che il decreto Lupi – per abrogazione o per dichiarazione di illegittimità costituzionale – venga meno e smetta di produrre i suoi effetti devastanti.
A prendere la parola in piazza il 9, oltre ad alcune/i delle promotrici e dei promotori della mobilitazione, a esponenti della società civile e a rappresentanti istituzionali, saranno soprattutto le persone che fanno diretta esperienza dell’esclusione dall’anagrafe e che, attraverso le loro biografie e le loro testimonianze di vita e di lotta, sono in grado di raccontare meglio di chiunque altra/o cosa ha significato, in questi lunghi sette anni, l’art. 5. (enrico gargiulo)
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