Il 30 marzo 2021 la casa editrice il Saggiatore si è vista recapitare una lettera inaspettata. Il gruppo di redattrici e redattori esterni che aveva realizzato la stragrande maggioranza dei libri dell’editore nel 2020 ha chiesto, con una sola voce, perché si è deciso di fare a meno di tutti loro. Così, nel mondo del lavoro autonomo ha fatto capolino lo spettro dell’azione collettiva. Ma questa non è la storia di un lampo improvviso, di un’alzata di capo estemporanea fondata sull’indignazione. Per comprenderla occorre fare qualche passo indietro.
Due anni fa, un campione più o meno casuale di lavoratori e lavoratrici dell’editoria libraria si è riunito in uno dei tanti coworking milanesi. C’erano finte partite iva, freelance per scelta e per necessità e chi svolgendo prestazioni occasionali riusciva, in qualche modo, a lavorare tutto l’anno. Redattrici, traduttrici, grafiche, consulenti editoriali, stagisti e professionisti con trenta anni di esperienza. Oltre ad aver deciso di impegnare un martedì sera in un incontro che in certi momenti ha ricordato le dinamiche degli alcolisti anonimi, tutte queste persone avevano in comune il fatto di lavorare troppo, male e per compensi bassi, oltre alla certezza di non avere mai provato seriamente a creare una coalizione tra professioniste dell’editoria. È stata la prima riunione di Redacta.
Da allora ne è stata fatta di strada: è iniziato un lavoro d’inchiesta col quale — tra riunioni, interviste, sondaggi online — è stato prima di tutto censito chi lavora in editoria oggi e come (dati che nessuno si preoccupa di raccogliere), per poi ricostruire l’intero sistema produttivo analizzando i vari oligopoli del settore, l’impatto di Amazon e le modalità con cui negli ultimi decenni si è abbattuto il costo del lavoro portando le redazioni (e non solo) sempre più all’esterno delle case editrici.
Gli editori hanno spinto progressivamente verso:
- Una compressione delle tariffe del cottimo (la modalità di pagamento prevalente).
- Un aumento dell’intensità del lavoro per chi, dipendente o meno, è inquadrato con dei compensi fissi mensili.
- In generale, verso un risparmio sui costi contributivi.
Tutte queste informazioni sono state trasformate in strumenti utili per i professionisti, soprattutto quelli alle prime armi: un vademecum sugli aspetti fiscali, legali e relativi a welfare, sconosciuti ai più; un database con i tariffari di moltissimi editori; compensi dignitosi di riferimento per le principali prestazioni. E, soprattutto, da questa esperienza di condivisione e ricerca è nato un gruppo deciso a cambiare uno status quo riassumibile in questi pochi dati: la maggior parte delle persone (oltre l’ottanta per cento delle quali donne) che ha risposto al sondaggio online di Redacta guadagna meno di 15 mila euro lordi l’anno lavorando a tempo pieno.
Così, quando all’inizio del 2021 il Saggiatore ha deciso di tagliare i ponti con i freelance che componevano quella che a tutti gli effetti era la sua “redazione esterna”, le redattrici e i redattori che nel 2020 si erano occupati di qualche decimo in meno dell’ottanta per cento dei libri dell’editore hanno deciso di chiedere spiegazioni tutti insieme e pubblicamente. Se vogliamo, una continuazione dell’inchiesta con altri mezzi, che ha raccontato “in diretta” una possibile compressione del costo del lavoro portata avanti da un’azienda ben precisa: in altri mondi forse si chiamerebbe “una vertenza”.
Per capire cosa stava succedendo sono state importanti alcune informazioni raccolte nel tempo. Non è la prima volta infatti che il Saggiatore riorganizza il lavoro della redazione: negli ultimi anni alcuni membri di Redacta sono stati testimoni di un paio di occasioni in cui si è spinto verso un taglio dei costi, con un progressivo aumento delle mansioni dei collaboratori esterni (pagati con compensi forfettari) o semplicemente riducendo le tariffe. A ognuno di questi momenti di riorganizzazione è seguita l’interruzione consensuale di alcune collaborazioni, con i professionisti (spesso ex stagisti) che hanno cercato migliori fortune altrove. Questa rassegnazione a cercare nuovi clienti vale per qualsiasi freelance, dentro e fuori dall’editoria: la differenza questa volta è che, agendo collettivamente, non è rimasta l’unica cosa da fare.
Le domande che Redacta ha posto al Saggiatore nella sua lettera sono queste:
- L’editoria libraria è stata uno dei pochi settori a ottenere risultati positivi nel 2020. A che tipo di ragioni è riconducibile la scelta del Saggiatore di ridurre così drasticamente i costi di cura editoriale dei suoi libri?
- Se fino al 2020 la redazione non è stata in grado di sostenere la produzione di oltre centoventi titoli all’anno senza ricorrere ai collaboratori esterni, come potrà riuscirci nel 2021? Per poter mantenere la stessa qualità redazionale, è prevista una riduzione del numero dei titoli in uscita o un aumento del numero dei redattori interni?
- Negli ultimi anni il numero di stagisti in redazione è progressivamente aumentato. A quanti stagisti ricorre oggi la redazione del Saggiatore? Quanta parte del lavoro verrà a questo punto affidata loro?
L’editore, Luca Formenton, ha replicato il giorno successivo ma senza affrontare nessuna delle domande. In ogni caso, col passare del tempo alcune risposte sono diventate di dominio pubblico:
- I dati di bilancio e una recente intervista ad Andrea Gentile, il direttore editoriale, hanno confermato che, per quanto riguarda il fatturato, il 2020 è stato per il Saggiatore l’anno migliore degli ultimi dieci. Un dato in linea col resto del mercato.
- Dal sito della casa editrice invece è evidente che il numero di titoli nel 2021 rimarrà quantomeno lo stesso dell’anno precedente, e che non ci sono state assunzioni (prospettiva che non è stata ventilata neanche dall’editore, nella sua risposta).
L’unica domanda ancora senza risposta rimane quella sul numero degli stagisti. A causa della natura degli stage curriculari (per cui non è prevista la comunicazione obbligatoria al centro per l’impiego) non è possibile verificarne il numero, né fare confronti con gli anni passati. Il contesto pandemico, con le redazioni perennemente in smart-working, rende impossibile anche qualsiasi controllo “informale” del numero degli stagisti. Fino al 2019, infatti, i collaboratori del Saggiatore, come quelli della maggior parte degli editori, sono sempre andati fisicamente in redazione per ritirare e consegnare i lavori, un’occasione per conoscere le facce nuove che si alternavano nelle “scrivanie degli stagisti”.
L’ipotesi che il carico di lavoro sia stato spostato dai freelance agli stagisti (magari aumentandone il numero) è plausibile. Uno scenario che sarebbe coerente con la decisione dell’editore di non chiarire pubblicamente le proprie scelte, che potrebbero sollevare dubbi sull’autenticità del contenuto formativo dell’esperienza in casa editrice e sui suoi standard qualitativi.
Oltre alle precisazioni già fatte da Redacta, e continuando a rispettare la scelta di riservatezza dell’editore, ci sono due elementi della risposta di Formenton, uno degli eredi della stirpe Mondadori, che forse possono dirci qualcosa di più sulla posta in gioco. Tra le altre cose, la mail contiene:
- Un lungo paragrafo in cui sono esaltati i prossimi progetti culturali del Saggiatore. Un modo per rafforzare il marchio nonostante tutto.
- La risoluzione, pacata ma ferma (e ripetuta due volte), a non voler discutere le scelte dell’azienda con i collaboratori.
Tutto legittimo, tutto perfettamente legale, circostanza che rende ancora più curiosa la scelta di non rendere pubbliche queste considerazioni. D’altra parte, la forma privata ha contraddistinto la gran parte delle reazioni alla lettera: non soltanto le critiche, ma persino gli attestati di stima, i ringraziamenti, ulteriori segnalazioni riguardanti sia il Saggiatore sia altri editori. Telefonate, messaggi, mail, lunghi scambi di vocali, tutto in privato. A dimostrazione che discutere apertamente di certi temi è un tabù. Se n’è parlato in moltissime redazioni ma sui social, l’arena pubblica in cui ci si trova a dover discutere, le reazioni sono state freddine. Neanche il pamphlet di Christian Raimo sul Tascabile, che dedica un paragrafo alla vicenda, sembra aver smosso le acque.
Paragonare le motivazioni della scelta di rispondere in privato di uno degli eredi di una delle più importanti famiglie del capitalismo italiano a quelle di tanti più-o-meno-precari, quasi-sommersi o appena-salvati forse puzza di blasfemia, ma è un indizio interessante dell’aria che tira, e che permette di andare oltre la banale constatazione che, in ambito culturale, il più pulito c’ha la rogna.
L’aver messo in piazza la miseria del lavoro intellettuale in una forma (per una volta) estremamente tangibile – lavoratrici e lavoratori che non vengono più pagati posti di fronte all’evidenza che qualcuno, in qualche modo, il loro lavoro continua a farlo – è stato un gesto maleducato, una consapevole violazione del fair play tra freelance e aziende che, anche in forza di questo, ricorrono sempre più volentieri a “consulenti”, non sempre del tutto autonomi ma sicuramente soli. La regola per la quale questa massa di manodopera deve, per definizione, rinunciare all’azione collettiva si è rivelata d’improvviso fumo negli occhi. Se si creano le condizioni giuste possono farlo eccome, non solo in editoria.
Guardando il numero di freelance impiegati nei mercati che si fondano sulla reputazione, il potenziale per rendere meno immacolati tanti altri brand è notevole. Qui non si sta immaginando che il modello organizzativo dei prossimi sindacati possa essere una sorta di redazione diffusa delle Iene, pronta a raccogliere e rilanciare segnalazioni di “lavoratori indignati”. Le querelle si spengono in fretta, ma questa col Saggiatore, mettendo al centro la consapevolezza dello sfruttamento, proprio e altrui, ha gettato i semi di un’identità collettiva, necessaria per dare finalmente forma a organizzazioni più strutturate di una forza lavoro che è per sua natura disomogenea, disarticolata e individualizzata. Un passaggio niente affatto scontato, che rappresenta una minaccia a uno status quo sul quale ogni giorno si spendono fiumi di parole esistenziali, generazionali, in gran parte velleitarie.
Chi oggi tace o rifugge il confronto contribuisce a tenere in piedi i due feticci su cui si basa l’industria culturale: l’idea iper-contemporanea di un marchio separato da ogni sua manifestazione concreta e la buona vecchia incontestabilità del comando aziendale. Rimarranno in piedi? (redacta)
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