Glover: “Io sono quello che si dice un pubblico funzionario. Mi dicono che i contribuenti hanno il diritto di sapere che succede da queste parti, ed eccomi qui”. “Politica…”, fece Terry scrollando le spalle…
Terry Malloy è il protagonista del romanzo Fronte del porto di Budd Schulberg, interpretato da Marlon Brando nella versione cinematografica di Elia Kazan. Eddy Glover lavora per la Commissione d’inchiesta per fare luce sulle infiltrazioni del crimine nel porto di New York. Siamo negli anni Cinquanta del secolo scorso. Non voglio dire che sia il caso di oggi, del porto di Genova, anche se nonostante la modernità vi resistono, non marginali, personaggi adatti a quella trama. La frase di Glover serve a rammentarci l’interesse pubblico per le vicende portuali, in particolare la cura che vi dovrebbe dedicare l’amministrazione a cui compete, così come la risposta di Malloy denota la sostanza della questione.
I porti italiani, e Genova ne è il principale, sono demanio marittimo dato in concessione con la legge del 1994 a imprese private affinché con una gestione efficiente ne ricavino dei profitti a patto di contribuire all’interesse pubblico che lo stato, attraverso l’Autorità portuale, definisce con i piani regolatori e operativi ed è tenuto a sorvegliare con l’attività amministrativa. Analogo discorso, attraverso il ministero delle infrastrutture, vale per le autostrade, privatizzate dal 1999. Un’autorità incapace di indirizzare e controllare, per di più trattandosi in entrambi i casi di cosiddetti monopoli naturali, porta al prevalere dell’interesse esclusivo del concessionario a scapito dell’interesse pubblico. Per esempio, nei porti non basta che i concessionari facciano arrivare navi e merci in cambio di canoni e tasse, l’Autorità portuale dovrebbe pretendere sulla base di piani industriali credibili che vengano serviti principalmente traffici che producano valore aggiunto per il territorio, con trasferimenti modali bilanciati, minore impatto ambientale e più alti tassi di occupazione. Per esempio, i porti dovrebbero pretendere la creazione ai margini del nodo autostradale di aree di sosta attrezzate per i camionisti diretti al porto e sistemi telematici di regolazione del traffico di accesso ai varchi. Invece le Autorità per lo più tradiscono la missione del concedente pubblico e si limitano ad assolvere alle funzioni di regolazione burocratica. Fanno prevalere l’idea che comandino le leggi di mercato, di cui le imprese sono le uniche interpreti e da cui dipende il lavoro e non viceversa, per cui è ovvio che esse facciano i loro esclusivi interessi, giovandosi peraltro ampiamente dei finanziamenti statali. Se gli affari vanno bene è merito delle imprese, se vanno male è colpa dei mercati.
Il crollo del ponte Morandi ha acceso la luce sul sistema delle concessioni pubbliche delle autostrade, ma è l’occasione per farlo anche per quelle portuali, visto che il porto si presenta idealmente come l’artefice e concretamente come la vittima del crollo. Sviato dalla retorica del “dolore e orgoglio” come se il ponte Morandi fosse un “ground zero” causato da forze estranee e ostili alla città, e destinato a risorgere solo grazie alla tenace volontà dei suoi abitanti, non si è aperto invece un dibattito sulle responsabilità politiche che non riguardano solo i governi nazionali ma anche le istituzioni locali, che ne hanno condiviso i piani e gli investimenti nelle infrastrutture. La politica locale cerca invece di consolidare il consenso ottenuto alle elezioni, mobilita lo spirito strapaesano “ferito ma mai domo” e assieme al mondo imprenditoriale, il porto in prima fila, attende dal governo centrale i fondi per le ricostruzioni e i risarcimenti e, in nome dell’emergenza, norme straordinarie per un’inedita extraterritorialità economica aperta principalmente alla deregolamentazione degli affari e del lavoro.
Il ponte Morandi è crollato per un rischio mal calcolato. Ma che il rischio ci fosse era noto visto che in più occasioni il ponte era stato riconosciuto letteralmente come “malato terminale”. Salvo che la speranza di vita prevista superava almeno i dieci anni, ma anche oltre era previsto che il ponte restasse in piedi sgravato dal traffico pesante. Il rischio di crollo non è mai stato menzionato ufficialmente nella storia del ponte, se non da occasionali Cassandre più con lo spirito della provocazione che della profezia, perché sarebbe stato insostenibile l’allarme sociale che ne sarebbe derivato. Ha prevalso la fiducia nella tecnica comprovata da mezzo secolo di vita, unita alla mole dell’opera “too big to fail”. In altre parole, se il crollo era ipotizzato nei calcoli riservati degli ingegneri, il rischio effettivo con cui l’opinione pubblica si è confrontata era il blocco del traffico del ponte per un lungo intervento di manutenzione straordinaria, ovvero quello della congestione dovuta all’aumento progressivo del traffico.
È rispetto a questo rischio che la risposta della politica è stata fallimentare: quarant’anni di discussione vana su un percorso alternativo, di cui nove da quando al termine di un débat public si è arrivati finalmente a una decisione, e ancora dieci anni da attendere per la realizzazione se tutto andrà bene. Questa “fatica politica”, che ha accomunato governi nazionali e locali di sinistra e di destra, molto di più di sinistra occorre ammettere, rispecchiava la “fatica fisica” che intanto consumava la resistenza degli stralli. Mentre la “fatica sociale” riguardava le interminabili ore di coda passate per decenni nel nodo autostradale di Genova, di cui il ponte è il segmento centrale, congestionato dai camion del porto e dalle auto con a bordo i passeggeri dei traghetti oppure i villeggianti in transito, anche questi ultimi “merci” di quell’industria turistica che dopo il porto è il secondo pilastro dell’economia regionale. Sarebbe bastato evocare chiaramente il rischio del crollo per risolvere l’una e l’altra fatica mettendo d’accordo tutti, anche gli irriducibili oppositori della Gronda, l’alternativa al ponte. Ma nessun dirigente politico locale ha avuto la forza morale per farlo. Perché l’effetto non sarebbe stato solo l’ovvio allarme sociale per l’incolumità delle persone. Le istituzioni, i partiti, le imprese, i sindacati, avrebbero tutti gridato alla morte economica e sociale della città, analogamente a quello che sta accadendo oggi.
Le fatiche che hanno usurato il ponte Morandi sino al crollo hanno un denominatore comune: il porto. Sicuramente le merci del porto con il loro peso e la loro frequenza di transito hanno contribuito a infiacchire il ponte. Ma ancora di più della fatica fisica il porto ha contribuito alla fatica politica nella misura in cui gli interessi del porto, pubblici e privati, con la loro dominanza hanno asservito la città e il territorio a una visione speculativa da rendita di posizione senza che la politica fosse capace di affermare un modello diverso e un’effettiva volontà per realizzarlo. Volontà politica, non risorse finanziarie che non sono mai mancate al porto di Genova: prova ne sono le decine di milioni che dormono nel bilancio dell’Autorità portuale a causa della sua proverbiale incapacità di spesa. La maggiore evidenza è data dalla pressoché totale dipendenza del porto dal trasporto su gomma, uno dei motivi del traffico caotico in città prima e dopo il crollo. Da almeno vent’anni il traffico delle merci su ferrovia è in continua diminuzione. Non si tratta di mancanza di infrastrutture bensì di offerta e di domanda di servizi ferroviari, cioè di treni periodici che facciano la spola tra il porto e le destinazioni presso i mercati interni. Perché ciò avvenga occorrono investimenti da parte delle imprese sostenuti da una politica decisa dell’Autorità portuale, non solo per aggregare domanda ma anche perché la domanda provenga da mercati che siano al di là delle Alpi, altrimenti la convenienza del trasporto su camion resta vincente.
Questa fatica politica dal momento della tragedia è stata completamente rimossa nella percezione pubblica con un’operazione di marketing politico-mediatico senza precedenti. Le istituzioni locali, Comune, Regione e Autorità portuale, insieme alle categorie economiche, hanno assunto infatti subito il ruolo di parti lese da risarcire, vittime collettive di un disastro causato da soggetti distanti e avulsi dal territorio. Del tutto estranei da qualsiasi responsabilità si sono mostrati il presidente regionale Toti di Forza Italia, Rixi della Lega, viceministro infrastrutture e trasporti e già assessore regionale per sviluppo economico e porti; Bucci sindaco eletto da entrambi; Signorini, presidente del porto, già dirigente del ministero infrastrutture e segretario generale della Regione, nominato da tutti e tre. Ossia, esponenti di spicco di partiti che si sono alternati al governo e che nelle istituzioni locali hanno condiviso i piani e le risorse statali per le infrastrutture, autostrade comprese. Anche il Movimento 5 Stelle, al governo con la Lega ma all’opposizione a Genova e in Liguria, se l’è scansata nonostante sia stato l’irriducibile oppositore della Gronda, unica alternativa al ponte Morandi. Anzi, suo è oggi il ministro delle infrastrutture e dei trasporti, Toninelli, che si trova a dirigere la riparazione di un danno di cui egli paradossalmente nega la eventualità nel momento in cui esclude tuttora la Gronda.
Di questo concerto di colpevoli e innocenti, i funerali di stato delle vittime hanno offerto una scena senza precedenti nella storia repubblicana. L’indomani di una strage avvenuta in una infrastruttura pubblica i rappresentanti del governo nazionale e locale sono stati applauditi e quelli dell’opposizione fischiati. Ci sarà stata pure la claque, ma non c’è dubbio che i consensi alla somma delle forze al governo a Roma e Genova sovrastino in Liguria così largamente il centrosinistra da consentire loro di mostrarsi come classe dirigente completamente rigenerata, senza le tare del passato. Queste si concentrano invece tutte nell’opposizione, che quando era al governo si attardava fino allo sfinimento nelle mediazioni tra interessi elettorali eterogenei, consorterie sindacali, favoreggiamenti di affari, burocrazie invadenti, ma soprattutto di conflitti tra i personalismi dei leader. Un’opposizione resa colpevole anche delle privatizzazioni, peccato originale della concessione autostradale. Intanto, a distanza di un mese dal crollo, con le macerie ancora a terra, la cerimonia in piazza promossa dalle istituzioni all’insegna del dolore e dell’orgoglio (sic!) ha fatto loro riscuotere consenso e adesioni ancora più vaste. Tutto questo, vedremo se e quanto durerà. (riccardo degl’innocenti)
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