
Questo articolo era stato concepito come una cronaca asciutta, perché i fatti parlano da sé. Eppure sono bastati quaranta minuti al telefono con Tomi per cambiare questa impostazione, perché dietro ogni fatto di cronaca ci sono esseri umani e storie di gran cuore. Stanco e pacato, Tomi ci ha parlato e parlato: quasi non voleva spezzare il filo che lo collegava al mondo fuori dalle mura del CPR. La sua storia non è stata diffusa dai grandi giornali, in realtà non è stata diffusa da nessun giornale se non dal blog di radio Blackout e da Macerie. Il silenzio stampa riguardo questo caso è vergognoso e rende necessario divulgare la storia di Tomi in modo indipendente.
È da inizio febbraio che Tomi, un ragazzo di origine algerina detenuto nel CPR (Centro di permanenza per il rimpatrio) di corso Brunelleschi a Torino, ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro le condizioni disumane del centro. In un’intervista a radio Blackout Tomi ha affermato che «non viviamo in condizioni degne neanche di un animale, e io non avrei mai trattato un animale come gli immigrati nei CPR vengono trattati». I CPR sono stati chiamati così nel 2018, ma fino al 2017 erano i CIE, dal ’98 al 2008 i CPT. Il nome è cambiato, ma la struttura repressiva è rimasta. I CPR dovrebbero essere luoghi dove vengono ospitati immigrati irregolari in attesa di essere rimpatriati, ma sono spazi di detenzione dove gli “ospiti” detenuti stanno peggio che in carcere, nonostante non abbiano subito alcun processo. «Ci buttavano il cibo per terra, freddo e sempre in ritardo. La gente si lanciava e lottava come animali. Il cibo era poco. Non volevo più vivere in quelle condizioni».
“È colpa del medico”
Quaranta giorni fa Tomi ha cominciato lo sciopero perché poco prima dello scadere dei tre mesi (il tempo di detenzione dentro a un CPR previsto prima del DL Salvini) gli era stato comunicato che non sarebbe stato rimpatriato in Algeria, né rilasciato con un foglio di via. Il motivo è sconosciuto, tuttavia una delle ipotesi è che le ribellioni in Algeria e le loro conseguenze politiche e burocratiche stiano ritardando i tempi dei rimpatri. Dopo trentatré giorni di digiuno, e a causa delle sue gravissime condizioni di salute, Tomi è stato trasferito nel cosiddetto “ospedaletto” del CPR. Si tratta di uno spazio isolato dal resto del CPR, una stanza dalle pareti lisce dove si ricevono cure sommarie, spesso mirate a nascondere gli atti di autolesionismo che i detenuti commettono per disperazione. Dentro l’ospedaletto, ci ha raccontato, Tomi ha rifiutato di rientrare nella sua cella, è stato picchiato dalla polizia e poi è stato abbandonato per ore prima del trasferimento all’ospedale Martini. Lì le vessazioni nei suoi confronti sono continuate. Nonostante Tomi parli correntemente sia inglese che francese, i medici non hanno comunicato con lui, né hanno cercato un traduttore, ma si sono rivolti solo alle guardie. I medici hanno diagnosticato un semplice calo di zuccheri e di pressione sanguigna e hanno dichiarato che le sue condizioni di salute erano adeguate a un’ulteriore detenzione nel CPR, nonostante non sia in grado di camminare e stia usando una sedia a rotelle per spostarsi. In risposta, un gruppo di solidali si è riunito fuori dall’ospedale quella sera per informare i passanti, per portare solidarietà a Tomi e cercare di ottenere chiarimenti dal personale.
Il giorno dopo abbiamo deciso di domandare chiarimenti direttamente all’assessorato delle politiche sociali di Torino governato dalla pentastellata Sonia Schellino. È qui che si stabilisce la gestione degli immigrati e dei marginali della città. Come solidali abbiamo chiesto di parlare con l’assessora, ma lei non si è presentata e ha deciso di mandare un suo portavoce. La risposta di quest’ultimo è stata secca: «Beh, se (Tomi) schiatta è colpa del medico, non nostra». Il portavoce ha continuato: «Fatemi un nome di una persona sgomberata in questa città»; una sparata davvero grossa da parte di un membro di una giunta che ha sostenuto lo sgombero dell’Ex Moi e dell’Asilo Occupato solo nell’ultimo mese. Altri dipendenti hanno commentato: «Ah sì? Ma cos’è il CPR, una casa alloggio?»; «Ma questi centri non sono stati chiusi?».
Quaranta giorni
Il 19 marzo a Torino, per dimostrare nuova solidarietà a Tomi, abbiamo cercato di mettere pressione alle autorità competenti e abbiamo organizzato un presidio davanti agli uffici dell’assessore alle politiche sociali della regione Piemonte. Avevamo intenzione di chiamare le altre autorità competenti, tra cui il prefetto di Bari, città dove Tomi era stato da poco trasferito. La richiesta è stata rifiutata. Come spesso accade, non abbiamo ottenuto alcuna risposta se non indifferenza e scarico delle responsabilità.
È in questa atmosfera di disinteresse che nasce lo sciopero della fame di Tomi. Al telefono Tomi ci ha parlato con candore. Ha iniziato raccontando la sua attuale situazione e ha parlato a lungo delle umiliazioni e delle rappresaglie subite durante la sua detenzione. Da queste riflessioni è emersa subito la sua preoccupazione costante: lui era uno, uno dei tanti a cui queste politiche coercitive avevano rovinato la possibilità di un’esistenza vissuta secondo umanità. Siamo entrati in confidenza e abbiamo parlato della sua visione del mondo e del sistema che condanna tante altre persone come lui a questo limbo tra vita e morte, legalità e repressione. Robot, ha chiamato coloro che perpetuano queste politiche. Col cuore di pietra. E il dio creatore in cui lui crede ci sta punendo per questa indifferenza. Le tempeste in America, i terremoti, secondo Tomi, sono tutti segni che il suo dio non stava al gioco. Gli esseri umani hanno traviato l’ordine naturale che gestisce le loro interazioni e quelle del pianeta. Sono i potenti, gli squali che ci dominano, gli artefici della catastrofe. In Italia, come in Francia e in Algeria, in tutto il mondo. Le sue angosce erano spesso rivolte non alla sua personale condizione, ma a tutti coloro che si ritrovano derubati dei loro diritti più basilari. «Io so di poter morire da un giorno all’altro – ci ha detto –, normalmente le persone durano massimo sessanta giorni in sciopero della fame, io sono quasi a quaranta. Ma a me non importa morire, la mia vita l’hanno già distrutta. Io sono qui a protestare, affinché nel futuro nessun altro debba passare l’annientamento che io ho dovuto passare».
Tomi in questo momento è a Bari. È partito sabato scorso, il giorno dopo la nostra irruzione negli uffici del Comune. Per un periodo gli è stato requisito il telefono per impedirgli di comunicare con il mondo esterno. Le guardie gli avevano detto che sarebbe stato portato in un ospedale, invece è stato spostato in un altro CPR. Dal CPR di Bari parla con la voce tremante per il freddo umido: «Le finestre sono crepate e non si chiudono mai, non c’è riscaldamento, non c’è’ una sedia a rotelle per me in tutto il centro, le mura sono ammuffite dall’umidità». Gli hanno affidato un avvocato, ma nel frattempo i giorni passano. Tomi ci ha descritto le terribili condizioni di detenzione che ha incontrato qui in Italia, le peggiori che abbia mai incontrato in Europa. Raccontava che a Bari c’è addirittura un ragazzo sedicenne, e non si capisce perché un minore sia detenuto in un CPR.
Da anni gruppi di compagne e compagni hanno portato avanti la lotta in campi come questo, utilizzando una varietà di tattiche. Una di queste è la tessitura di contatti con i prigionieri, conservando il sottile filo che li collega al mondo esterno. Grazie a questi compagni noi abbiamo potuto contattare Tomi e raccontare la sua situazione. Per aver lottato contro i CPR, sei compagni sono stati arrestati a Torino lo scorso febbraio e due sono ancora detenuti. Esprimiamo la nostra solidarietà ai prigionieri dei CPR, ai detenuti politici e a coloro che fuori continuano a contestare la repressione. E specialmente siamo vicini a Tomi. (due solidali di Tomi)
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