È morto venerdì Salvatore Basile, detto Antonio, pescatore tarantino. Qualche anno fa l’abbiamo intervistato nell’ambito di un lavoro sulla storia e sulle storie della Città Vecchia, pubblicato poi nel libro di cyop&kaf: Taranto. Un anno in Città Vecchia. Riproponiamo di seguito ciò che venne fuori da quella lunga chiacchierata estiva, tra le pareti della sua casa, alla presenza di tutta la sua famiglia.
SALVATORE BASILE detto Antonio – pescatore
«Io sono nato a Crispiano nel 1942. Però ho sempre abitato a Taranto, a via Di Mezzo. Tanti anni fa nei magazzini dei pescatori ci abitavano famiglie di sette, otto, dieci persone e con tutto che ci abitavano mettevano anche l’attrezzatura della barca, i remi… Quando eravamo sfollati mio padre percorreva in bicicletta la Crispiano-Taranto per raggiungere la barca e uscire in mare. Eravamo una famiglia di pescatori. Ma tutti all’epoca erano pescatori, ogni due passi stava una bottega. Poi c’era qualcuno di Arsenale, qualcuno dei cantieri Tosi… Ho sempre fatto il pescatore. È un mestiere che mi piace. Prima le barche erano a remi e a vela. Non ne stavano motori! Io e mio fratello eravamo piccoli e mio padre una volta portava me, una volta portava lui. Ci metteva nella fascia della vela. La mattina alle due si alzava per preparare l’esca, quell’erba che si metteva nelle nasse per i pesci, il lippo… Sulla barca erano due, uno ai remi e mio padre che tirava le nasse. Una nassa qua, una più avanti, una a destra, una a sinistra e lui comandava il ragazzo. Mio padre è sempre stato nel porto. Prima dell’Ilva il mare era pescabile in tutte le zone che adesso sono proibite. Poi andavamo anche a San Paolo, San Pietro, Punta Forca, certi mesi perfino a Chiatona. Abbiamo sempre fatto il mestiere di nasse. Non abbiamo fatto mai né reti né strascico. Per un po’ di anni abbiamo fatto le cozze pelose, noci, ostriche, tutti i frutti di mare. Ma non sempre però, solo di inverno. Prima nelle nasse tutto si prendeva: vope, saraghi, polipi… ma allora il mare era pieno… la seppia, ‘u scorfane, mentre adesso niente, amma aspettà quanne arriva l’estate per vedere qualcosa. Come si va verso l’inverno, il mare si serra. Mentre di inverno allora era sempre che si pescava. Non si andava a riva perché d’inverno arrivano i cattivi tempi. Si andava all’acqua profonda, così i cattivi tempi non ti colpivano.
Mio padre è andato a lavoro fino a novant’anni. E faceva sempre le nasse, ce le abbiamo ancora le nasse sue. Fino alla settimana prima che morisse stava a casa ad aggiustarle. Le nasse prima erano di giunco, ora sono di ferro, di ferro zincato, plastificato, a retina, a quadratini… Lo raccoglievano i campagnoli questo giunco. E si comprava a quintali. Allora stavano tanti maestri e maestre di nasse… Non è rimasto più nessuno. Il mestiere sta morendo. Adesso pescano con le reti a tutta forza. Sono uscite tante attrezzature che il mare l’hanno distrutto: lo strascico, i sommozzatori… le seppie e i polipi così li prendono: reti piccole quanto mezzo dito. Ma così rovinano i pesci, li pigliano troppo piccoli. E il fondale pure. Madonna che disastro! Per questo lo chiamano lo strascico. Quello significa: strage! «Pure le bombe uccidono tutti. Grandi, piccoli e mezzani. Ultimamente hanno fatto un colpo, venti-trenta quintali di orate tutte in una volta, a San Vito. Cinque o sei botte. Però si vede che qualcuno ha telefonato, perché poi sono stati arrestati. Quelli che vanno a quel mestiere (a orate, ndr), a ‘u cuenze (palangaro: tecnica di pesca artigianale che si fa con numerosissimi ami, ndr), ora stanno andando tutti i giorni e ne prendono un paio di quintali, tutti quelli che sono morti e nessuno aveva tirato su. Però se non li avessero ammazzati così, quei pesci si sparpagliavano nel mare per la pesca futura. Prima era diverso, nelle cooperative stavano i guarda-acqua. Non si potevano pescare le seppie piccole, non si poteva pescare a Mar piccolo, erano sempre inseguiti. Ora anche se esiste il controllo non lo rispetta nessuno. I sommozzatori sono a centinaia. Prima erano giusto un paio. Non c’è il mestiere e allora lo fanno i dilettanti. Ognuno per guadagnare si compra la barca di plastica col motore fuori bordo; poi si compra una ventina di pezzi di rete e lavora abusivamente. E da ddo iessene tanti pesci ancora?
Poi questo è un mestiere che si rischia pure. Una volta mi trovavo dopo Chiatona e stavo pescando ‘su ‘u Lenne, addò ste ‘u fiume Lenne, addà’. Era fine giugno. A giugno i temporali sono terribili! Me lo diceva sempre papà: “Pigghijateve paure de le burrasche de giugno!”. Noi in genere pescavamo zammarrelle, masculari, pesci piccoli. Passata la stagione di quei pesci, alla fine rimangono i trauli, le naccaridde, i pesci grossi, pesci correnti: noi diciamo ‘a ngolatora (l’esca sempre in un punto; i pesci si raggruppano e si pescano con la lenza, ndr). Io mi trovavo là a pescare i trauli e stava cominciando a fare un po’ di temporale, nuvole sotte pe sotte, verso la Calabria. Mi trovavo distante, un’ora e mezzo di cammino da Taranto. Pescavo e guardavo, pescavo e guardavo e il tempo di più si faceva brutto. Man mano si imbruttiva e si ingrandiva. Misi in moto e non ebbi manco il tempo di arrivare ai Gaggiune, la spiaggia che stava tra il Lenne e Chiatona prima che facevano l’Ilva, che il temporale all’improvviso mi arrivò addosso. Il vento era a favore, dritto dritto. Però dovevo trovare prima la scogliera con l’imboccatura e poi dovevo entrare nel porto. Pochi secondi e non mi vidi più. Polvere nera in cielo, vento… Un vento! Riccio il mare e schiuma. Non vedevi niente. Io stavo solo a mare, e siccome il temporale era a favore non potevo abbassare al minimo il motore perché il mare sennò mi arrivava dentro e si gettava nella barca. Aumentando il motore era meglio, il mare così lo lasciavo io, tra vento forte e motore a tutta forza. Camminavo, quindi, e il mare vedevo che non mi arrivava dentro: “Beh, sta bene così. Posso andare forte”. Solo che non mi vedevo! Non sapevo più dove stava l’entrata del porto… Ma là stavano le colonne di cemento enormi, quelle per la costruzione delle banchine, per gli scarichi mercantili dell’Ilva. Era pericoloso arrivarci a velocità. Dopo un’ora di tempesta arrivai quasi al punto dove dovevo entrare. Non sapevo come fare, non vedevo niente, poi all’ultimo finalmente cominciò a schiarire e vidi l’imboccatura. Mi dissi: “Nà dritt all’imboccatura stoche!”. Nel frattempo mio padre nonostante la tempesta era uscito con un peschereccio di un amico per venirmi a cercare e mi venne incontro.
Un’altra volta a San Vito, fece una botta d’acqua che sembrava che si appiccicava il cielo col mare… Tutto nero! Nu carbone! La paura! Quel giorno andammo io e mio fratello. Stavamo vicino al faro, il faro verde di San Vito. Era mattina, ma divenne praticamente notte. Stavamo tirando le nasse dei polpi. Era dalla parte dello scirocco e noi stavamo allo scoperto, senza riparo. Allora guardando a scirocco (a sud, ndr) tu vedevi il faro e tutto il mare aperto. E sembrava che le nuvole si dovevano intortigliare col mare. Poi lampi, tuoni… Quella non era una barca a remi che tu puoi scendere a terra, la puoi prendere a quattro mani e tirare. Con la barca a motore non lo puoi fare. Quando il temporale lo vedi dalla mattina non esci, ma se ti prende all’improvviso ti prende in mare. Una volta ci successe nel mare di Levante. Andavamo a remi ancora. Io andavo con il padre della donna che vive accanto a noi. E andavamo navigando pian piano… All’improvviso da dietro piglia e sentiamo: “Shhhhhhh!”, e rompe il mare. Siccome l’acqua era bassa il mare ci prese da dietro e la barca si mise a camminare che sembrava un motoscafo! Sulla schiuma del mare camminavamo! Finché andammo a sbattere contro uno scoglio e la barca si bucò. Ci trovavamo a Punta Forca, dalla parte di dentro. Tirammo la barca a terra, allora si usavano le casse di legno dei pesci e mettemmo la tavola di una cassa da pesce sotto, dove avevamo bucato. Così arrangiammo e ci mettemmo in mare e andammo a fondo proprio quando arrivammo a terra… per un pelo. Era di stagione (fine estate, quando trovi il mare di Levante in genere, ndr). Però per riparare la barca dovevamo andare per forza a terra, e non ci potevamo permettere mica di lasciarla…
Una volta presi un tonno di un quintale! Tutte le mattine gettavo l’esca a mare e quello veniva sotto alla barca. Si mangiava sempre l’esca e – noi diciamo – se ‘ngolava: trovava il mangiare e la mattina si presentava là sul punto. Sentiva il rumore del motore. La prima volta era uno grosso, pesava tre-quattro quintali… una testa così grande… qualsiasi cosa gettavi a mare se la mangiava: sarde, vope, trauli… però non abboccava mai. Che poi un pescatore disse a papà: “Statte attinte cca quidde ci ve mange, te po tagghijaa ‘na mane, nu dicite, nu vrazze te po spezzà. Cca chidde so’ terribile (stai attento che quello se va a mordere ti può tagliare una mano, un dito, un braccio ti può spezzare. Che quelli sono terribili)”. E noi con la lenza e l’amo grosso, mettemmo la sarda vicino all’amo e la gettammo in mare. Quello andava vicino, guardava e se ne andava. Guardava e se ne andava. Naaaa, e com’è che non mangia? Poi capimmo. Ci disse un pescatore che con un peschereccio bisogna camminare forte per prendere i tonni. Non a lenza moscia, ferma… E così fu. Però quello grosso ci salutò, non lo vedemmo più. Ce ne stavano uno o due di quelli da un quintale e presi uno di quelli… Preparai la corda, qualche cento metri di corda con tutto il galleggiante, che se va a mangiare bisogna mollare subito. Non la classica lenza, ma la corda grossa quanto un dito! Misi una vopa vicino all’amo, accelerai il motore… Nella schiuma dell’elica quello non vedeva niente, vide soltanto il pesce, non vide l’amo! Dovevo andare veloce perché doveva fare la schiuma, così non vedeva… E io la paura! Era la prima volta! Mi avviai e dissi: “Beh, ormai sono arrivato a una certa distanza, mo’ provo!” – e gettai la vopa nella schiuma dell’elica. Subito sentii tirare, sentii il peso vicino alla mano. E mollai tutta in una volta la corda, bum! Tutto il galleggiante a mare. Fermai il motore e vidi che il galleggiante camminava! Qualche cento metri di corda! Tira e tira e quello tirava dall’altra parte… Quando arrivò vicino alla barca, mi diede un colpo di coda che mi fece il bagno e se ne andò un’altra volta e io mollai tutte cose un’altra volta! Perché se tu lo mantieni, poi gli spezzi il muso, perciò lo devi lasciare, altrimenti lo perdi! Alla fine capii che non lo potevo tirare sopra da vivo. Non così, senza un arpione, senza nulla. E me lo portai a San Vito fino a terra. Quando arrivammo nel porto incominciava a barcollare, si era stancato. E dissi: “Vuoi vedere che mo’ lo devo perdere?” – perché il muso si era allascato, mi mettevo paura che se ne usciva l’amo. Così pian piano gli feci ‘u chiappe (cappio). Lo feci andare a fondo. Feci entrare il tonno nel cappio, quando arrivò vicino alla coda lo strinsi. La coda è larga, non poteva uscire dal cappio. E me lo portai a terra. Stava un amico e mi aiutò a tirarlo sulla barca. E tutti i dilettanti che pescavano, quando passavo da vicino dicevano: “Madò, ma ce porta quidde, face sempre ccu ‘u braccio accussì!”.
Tanti pescatori sono entrati in fabbrica. Adesso dicono che non è più buona, che è pericolosa. Alla fine si sono scoperte tutte queste cose. E intanto… ccumme annà fa? Ce ijè ‘nu giocattole cca ‘u smonta- ne da ‘na vanne e ‘u passe ann’otre? (come devono fare? Che cos’è un giocattolo, che lo smontano da una parte e lo passano da un’altra?). Ieri stavano facendo un’intervista su Rai 3 e stava parlando una signora. C’erano lei e suo marito. A suo marito facevano delle domande, aveva un coso qua (fa segno alla gola) per parlare. E diceva quello: “Che ti ha dato l’Ilva?”, e lui diceva: “Mi ha dato il pane.”. “E quanto prendi di pensione?”. Ha detto lui: “Ottocento euro”».
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