É in libreria nelle principali città d’Italia (qui tutti i punti vendita) il numero 5 de Lo stato delle città, acquistabile a partire dal gennaio 2021 anche attraverso abbonamento annuale e abbonamento sostenitore.
Proponiamo dall’ultima uscita della rivista l’articolo Le due rivoluzioni di Hong Kong, di Wonton.
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Se dovessi descrivere Lin con una parola probabilmente sarebbe “ermetica”. Lei è un’amica di mia moglie che viveva con lei quando ci siamo conosciuti da universitari in Canada e poiché nel loro appartamento dello studentato erano le uniche studentesse straniere asiatiche, una di Shanghai e l’altra di Hong Kong, abbastanza naturalmente diventarono amiche. Avevo qualche difficoltà nel comunicare con Lin, più timida e con un inglese meno fluente di quello di mia moglie, ma mi ha sempre dato l’impressione di avere un animo gentile e vagamente naif. Nei nostri anni a Hong Kong, dopo l’università, le due non hanno mai perso i contatti, scrivendosi di tanto in tanto, seppur con qualche difficoltà, visto che Lin, anche avendo un account Facebook, non utilizza social media occidentali, e organizzando occasionali reunion talvolta a Shanghai, talvolta a Hong Kong. Venne persino in Italia per fare da damigella al nostro matrimonio.
D’un tratto però, nel corso del 2019, questi contatti si sono interrotti. Non c’è stata nessuna lite o discussione, semplicemente Lin non ha più scritto. Mia moglie pensa che alcune cose da lei condivise su Facebook durante i periodi delle proteste possano averla “offesa” o spaventata, visto che nella narrativa dei media di stato quello che succedeva a Hong Kong era etichettato come terrorismo contro il grande popolo cinese. È una cosa che ci ha fatto dispiacere ma che abbiamo vissuto come parte di un nuovo “ordine naturale delle cose”. Sono state infatti numerose le relazioni recise in maniera analoga per molti cittadini di Hong Kong, a volte anche dentro le mura di casa. Un divario di opinioni cresciuto negli anni, dapprima sotto forma di disobbedienza civile e generale politica di opposizione, poi divenuto polarizzante in seguito alle dure risposte del governo locale alle proteste del 2019.
Quando nel 2013 mi sono trasferito a Hong Kong, tra le varie differenze culturali e linguistiche ricordo bene una certa difficoltà nel capire la relazione complicata tra gli abitanti locali e i vicini della Cina continentale. Per come la vedevo io all’epoca, in una sorta di ingenuità post-coloniale, la Cina era una nazione che negli ultimi decenni aveva messo in atto un processo di modernizzazione estrema e per molti versi affrettata, con ovvie conseguenze di incongruenza di atteggiamento tra le varie classi sociali. I cinesi erano persone dai modi un po’ rozzi con un grande senso di iniziativa e un appetito per il nuovo che apprezzavo, specie se paragonato al mercato, già all’epoca stagnante, di una Hong Kong dominata da un conservatorismo miope e dalla paura di perdere le ricchezze accumulate durante gli anni d’oro del periodo coloniale. Persino le pratiche dispotiche del governo, come il controllo assoluto di internet e dei media tradizionali, erano una sorta di “male necessario” dovuto alla necessità di tenere saldo il timone di una nazione ancora fondamentalmente rurale, per poi allentare la presa man mano che il divario intellettuale venisse colmato. Ovviamente la mia percezione era dovuta al fatto che tutti i miei contatti, tanto lavorativi quanto personali, vivevano a Shanghai o Beijing: di buona famiglia, di solito con un retroterra di studi internazionali, grazie all’uso di VPN erano toccati in maniera molto marginale da un certo tipo di censura di stato.
L’opinione al di qua del confine era sicuramente più contorta. Persino mia moglie, nata e cresciuta a Hong Kong, ma con studi all’estero e diversi amici a Shanghai, ha nei confronti della Cina – e dei suoi cittadini – una posizione dura e a tratti quasi razzista che mi ha sempre fatto ribollire il sangue. Ricordo un episodio in particolare, nel 2013, quando un commento del tipo “se ne stessero a casa loro” suscitò in me una reazione tale da spingermi a un’accesa discussione sull’argomento. Da italiano meridionale una frase del genere aveva un retrogusto leghista che trovavo intollerabile. Lei mi fece notare, tuttavia, che questo tipo di immigrazione è per molti versi unica al mondo e molto diversa da quella cui siamo abituati in Italia. Parliamoci chiaro, i cinesi qui non sono mai piaciuti. In parte per paura nei confronti del regime comunista, in parte per via di un retaggio coloniale di divisioni sociali e razziali tra i governanti inglesi e la sudditanza cinese, ancora maggiore verso gli immigrati – classici se vogliamo – che durante più ondate sono fuggiti dalla madre patria per cercare fortuna a Hong Kong.
Nel 1997 però questa dinamica è cambiata, perché la città ha cambiato padrone. Prima ancora che Beijing facesse sentire la propria influenza politica, la nuova piccola borghesia cinese ha iniziato a visitare in maniera regolare la città – per anni considerata come una sorta di terra promessa – riversandovi gli ingenti capitali a sua disposizione. Dapprima compravano beni di prima necessità “critici” da rivendere in patria – si veda il caso del contrabbando di latte in polvere –, poi beni di lusso, considerati più garantiti contro il rischio di contraffazione, e infine hanno iniziato a investire nel mercato immobiliare.
Questo flusso di capitale ha avuto il duplice effetto di far fiorire i mercati finanziari – con i nuovi giganti cinesi che utilizzavano l’Hong Kong Stock Exchange come ponte per attrarre investitori occidentali – e al contempo danneggiare enormemente l’economia reale. Le speculazioni immobiliari dei nuovi conquistadores sono state la causa principale dell’aumento astronomico dei prezzi delle proprietà mentre i piccoli business locali, incapaci di tenere il passo coi prezzi degli affitti, lasciavano il posto a gioiellerie e altri outlet di ultra-lusso accessibile solo a questo nuovo tipo di turisti. L’aspetto però che mi era inaccessibile, mentre faceva infuriare lei più di tutto, era l’arroganza del padrone: un nuovo marchio di nazionalismo misto a impenitenza, largamente promosso in patria, ora esportato dalla neo-borghesia arricchita durante le proprie crociate finanziarie all’estero. Il tutto sotto il vessillo di un “libero mercato” privo di qualsiasi regolazione da parte del governo.
Quest’ultimo atteggiamento in particolare è da molti anni il vero fulcro del dibattito politico in città. Una classe dirigente non eletta muove le fila della politica locale, e gli appetitosi interessi economici sono gli ovvi moventi di ogni azione di governo. L’oligarchia locale mette i propri profitti, del tutto allineati con gli interessi politici di Beijing, prima del benessere dei cittadini, che a più riprese si sono sentiti traditi e ridotti a un nuovo stato di sudditanza. Uno scenario molto diverso da quello adombrato nel trattato Sino-Britannico che prevedeva un graduale passaggio a un sistema elettivo con suffragio universale per la nomina del Chief Executive con le elezioni del 2017, previste come punto di arrivo di questa transizione. Tale promessa è stata definitivamente infranta nel 2014 con una proposta di riforma elettorale che prevedeva la votazione del nuovo Chief Executive tra tre candidati, eleggibili dal popolo ma pre-selezionati dallo stesso consiglio di mille e duecento grandi elettori attualmente incaricati di nominare il CE – garantendo quindi a Beijing un certo controllo sull’esito delle elezioni.
SOCIETÀ DIVISA
Il post-rivoluzione è stato più complicato. Mi ha sempre colpito come in tv a Hong Kong non ci siano talk show politici, così popolari da noi. Prima del novembre 2014 l’idea generale era che la gente locale, seppure coltivando malcontento nei confronti della classe dirigente, fosse assopita, assorbita dai propri problemi e in fondo menefreghista. D’un tratto la coscienza politica della città si era svegliata. Tutti hanno cominciato ad avere la propria opinione sui fatti, parteggiando con una o l’altra fazione. Da un lato una vasta fetta della popolazione che criticava il servilismo governativo rispetto a Beijing, dall’altro le forze conservatrici della città che lamentavano i danni economici causati dall’occupazione. Di quei giorni ricordo in maniera vivida una cena con la famiglia allargata di mia moglie, quindi con vari zii e cugini, in un ristorante abbastanza affollato. L’argomento protesta era già una sorta di tabù, in quanto causa di forte divisione interna – con tutti i cugini a favore dei manifestanti e i genitori contrari. Fu sufficiente però un evento minuscolo e casuale, come il commento di un cameriere a una notizia mandata su un televisore di sfondo nel ristorante, per accendere gli animi e aprire una discussione di cui, pur non capendo la lingua, percepii la durezza e la gravità. Fu per me il primo contatto diretto con persone così radicalmente contrarie a una protesta che, tanto per le motivazioni quanto per le modalità, mi sembrava inattaccabile. Perché, mi chiesi. Da un lato vi è un senso di rispetto dell’autorità con profonde radici culturali, dall’altro un dibattito molto più attuale sull’identità di Hong Kong e dei suoi cittadini. Al di là dei trattati e delle leggi, Hong Kong è parte della Cina o no?
Per una parte della popolazione la risposta è semplice: loro sono cinesi, Hong Kong è cinese. È la loro storia, la loro cultura, e il governo autoritario centrale non è poi così male se si bada ai propri affari e si evitano le questioni politiche. All’interno di questa narrativa, tutto questo parlare di democrazia d’un tratto assunse una immagine anti-patriottica ed esterofila, fomentata da una gioventù locale “deviata” perché troppo esposta alle influenze straniere – specie americane.
Una nuova e potente linea propagandistica per Beijing, determinata a minare la base ideologica del fronte democratico e marginalizzare i suoi membri più attivi sia attraverso azioni legali – cercando l’arresto dei leader dell’occupazione – che politiche – come lo sfruttamento di cavilli formali per far fuori dal LegCo i membri del gruppo studentesco Demosisto appena eletti, e retroattivamente tutta una serie di altri rappresentanti di opposizione.
Negli anni a seguire molti di questi sentimenti contrastanti sono rimasti sospesi nell’etere delle relazioni sociali cittadine, seppur in parte affievoliti man mano che la gente tornava alla propria quotidianità. Il 2019 ha bruscamente rotto questo precario equilibrio. Ancora una volta il movente è stato il tentativo da parte del governo di far passare una legge che sarebbe andata a influenzare l’indipendenza di Hong Kong, in questo caso del sistema giudiziario, offrendo a Beijing un pertugio per agire legalmente in città sfruttando l’espediente dell’estradizione. Come era stato già nel 2014, una quantità enorme di gente si è riversata nelle strade per chiedere il ritiro immediato del disegno di legge. A differenza del 2014, però, la risposta da parte delle forze dell’ordine è stata subito dura, con l’obiettivo di spaventare gli intervenuti e bloccare qualunque tentativo di occupazione. Le proteste hanno assunto una dimensione molto più anti-sistema, con un chiaro nemico individuato nella polizia, mentre le risposte governative tardive o assenti hanno contribuito al rapido deterioramento della situazione.
La presenza di agenti travestiti da manifestanti e corpi militari cinesi in uniforme locale, documentata in più situazioni, ha chiuso un cerchio nel quale i manifestanti hanno perso qualunque forma di fiducia nei confronti delle autorità. Gli scontri sono divenuti sempre più violenti, complice l’intervento di membri della criminalità organizzata in sostegno della polizia, culminando in lanci di molotov e distruzioni di proprietà di enti pro-governativi come gesti di rappresaglia da parte dei manifestanti. Questo ha segnato una frattura interna al movimento tra quelli che erano impauriti da queste forme più radicali di protesta e il vero fronte delle manifestazioni, composto da ragazzi spesso giovanissimi, disillusi e pronti a battersi contro il tiranno con ogni mezzo.
Io stesso, dopo aver preso parte ad alcune marce significative e aver visto il grande senso di umanità che regnava tra le centinaia di migliaia di partecipanti, ero abbastanza stranito nel vedere come le cose fossero voltate. Ai miei occhi, i manifestanti avevano ceduto la propria inattaccabilità, tanto cara durante le proteste del 2014. Ma se le cose si fossero messe davvero storte, per me c’era una patria e una famiglia a cui tornare. Per le migliaia di cittadini al cuore della protesta, nati e cresciuti qui, questa non era un’opzione. Questa riflessione mi ha dato la dimensione della distanza reale che correva tra quelli come me – ovvero la comunità di lavoratori immigrati, o anche di seconda generazione – e la gente per cui la posta in gioco era tutto.
I movimenti del 2019 sono stati molto più underground di quelli del 2014, privi di leadership specifiche – come erano stati Joshua Wong, Nathan Law e Agnes Chow per l’Umbrella Movement – e coordinati attraverso una fitta rete di gruppi telegram, sub reddit e forum, piattaforme meno esposte al cyber-occhio di Beijing. Una rete coi propri canali, i propri linguaggi e le proprie verità, spesso diffuse sotto forma di meme virali condivisi poi ovunque. Sul fronte opposto Beijing non è stata da meno, inondando una certa sfera del web comprendente WeChat, QQ e la porzione di Facebook con utenza cinese con innumerevoli meme, talvolta contenenti elementi di propaganda, talvolta fake news, alimentando sempre di più le divisioni sociali.
Se è vero che il 2019 ha diviso la città in due fazioni del tutto incapaci di comunicare l’una con l’altra, numericamente parlando ha unito più persone di quante non ne abbia divise. Le cifre di partecipazione alle manifestazioni più grandi sbalordiscono e indicano chiaramente come la causa sia condivisa dalla maggior parte dei cittadini. Al di là delle occupazioni e degli scontri con la polizia – prevalentemente nel fine settimana – la gente si è sentita coinvolta anche nella propria quotidianità. Attività commerciali e ristoranti apertamente “gialli” – pro-manifestanti – hanno visto la propria clientela crescere in una rete auto-solidale in cui i manifestanti si supportavano tra loro anche al di fuori dei cortei. Potevi camminare per strada e d’un tratto sentire qualcuno urlare “five demands” e sconosciuti a metri di distanza fare eco “not one less”, o ancora “liberate Hong Kong”, “revolution of our times”. Di sera, affacciandosi al balcone, era possibile sentire gente continuare questa sorta di gioco tra un palazzo e l’altro facendo risuonare le voci di dissenso per interi quartieri. Persino nel centro commerciale vicino casa, uno dei luoghi più anti-politici cui riesca a pensare, mi è capitato di vedere, sparse su più livelli, centinaia di persone affacciarsi sulla corte interna per cantare canzoni e slogan. E questo accadeva in più e più luoghi ad alta affluenza sparsi per Hong Kong.
UNA PAUSA FORZATA
Tutto questo si è largamente placato agli inizi del 2020. Non per un’azione da parte del governo o delle forze dell’ordine però. Dalla Cina continentale – nonostante il governo centrale negasse tutto – iniziavano ad arrivare notizie di un nuovo virus assai simile alla SARS che aveva già fatto centinaia di vittime nella sola città di Wuhan. In anticipo sulle azioni del governo per contenere il virus, la grande fetta di popolazione anti-Beijing ha subito preso la situazione estremamente sul serio. Con i primi casi di Covid-19 arrivati dal confine le priorità della cittadinanza sono cambiate, le proteste si sono interrotte e il dibattito pubblico si è spostato sulle risposte che l’amministrazione Lam stava fornendo per affrontare la crisi sanitaria – ancora una volta accusata di essere troppo accomodante nei confronti della linea negazionista di Beijing. In questa nuova, forzata calma le molte questioni in sospeso, in primis quella della brutalità della polizia, sono state accantonate, seppur solo momentaneamente.
Il 22 maggio, durante la prima giornata del Congresso Nazionale del partito comunista cinese, è stata annunciata la Legge per la Sicurezza Nazionale (LSN) e la nomina di Luo Huining – famoso per aver gestito con estrema durezza altre proteste in patria – a responsabile per gli affari di Hong Kong. L’evento segna il primo intervento diretto e pubblico della Cina nella legislazione della città. I giorni seguenti ho cominciato a notare una certa agitazione nella cerchia di persone con le quali interagivo. Della legge non si sapevano dettagli ed era difficile misurare quali reazioni fossero proporzionate all’effettivo rischio. Molti hanno cominciato a muovere i propri risparmi o convertirli in valuta straniera. I più abbienti hanno comprato case in paesi che offrivano visti e permessi di soggiorno come premi per investimenti oltre una certa soglia – per esempio il Portogallo –, mentre altri hanno iniziato a comprare oro temendo una svalutazione del dollaro di Hong Kong. A poco sono valse le rassicurazioni del governo o le affermazioni di supporto da parte di vari magnati e figure di spicco della città, richiamate dal partito a dichiarare pubblicamente il proprio supporto alla nuova legge.
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