Estratto di un articolo pubblicato sul numero nove de L’almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale.
Da noi, in tempi recenti e contemporanei, i pescatori del Golfo vivevano e vivono in maggioranza nei borghi marinari delle lave etnee: Ognina, Acitrezza, Santa Maria La Scala, Pozzillo, Stazzo, Riposto. Gli altri, i rimanenti, erano e sono gli abitanti della Civita e della Sciara, i due quartieri catanesi che cingendolo come una cintura custodiscono il grande porto di Catania, divisi l’uno dall’altro dalla Piscaria, il mercato storico della città.
Nelle marinerie del Golfo di Catania e delle Lave Etnee, le varie comunità di pescatori praticavano da sempre alcuni mestieri e si specializzavano in altri. Ognina e Catania, nel dopoguerra, si specializzavano nella pesca con il cianciolo a lampara e mantenevano a fatica quella della menaide (per la masculina da magghia). Acitrezza si concentrava nella pesca del pesce spada. Santa Maria La Scala, Pozzillo, Stazzo e Riposto nella pesca dell’alalunga e del pesce spada. In tutte le marinerie, il resto della piccola pesca artigianale praticava anche la pesca con il tremaglio, il palangaro, le nasse e stagionalmente con altri sistemi di pesca storicamente praticate per pescare singole specie ittiche.
La genesi dell’attuale pesca prende avvio con la fine della Seconda Guerra Mondiale quando, con l’avvento del motore diesel, si passò dalla pesca removelica e quella meccanica. Da questo leprocesso di “industrializzazione” nasce un rapido e, successivamente, feroce sviluppo. Si passa dalla pesca del territorio costiero e dei grandi saperi marinari a quello degli orizzonti marini illimitati e del sopravvento della tecnologia sempre più invasiva ed eticamente insostenibile. Il paesaggio costiero Etneo, dagli anni Ottanta, passa da una variopinta biodiversità “marinara” e biologica a una specializzazione sempre più monotematica del mestiere del pescatore. Dalla stagionalità polivalente del piccolo pescatore costiero a quella sempre più unica e lunga del pescatore “mediterraneo”. Dalle barche in legno di piccolo tonnellaggio, ai grandi pescherecci di venti, trenta metri, a quelli grandissimi in ferro. E i grandi e grandissimi pescherecci sono quelli che, più di tutti, hanno distrutto e stanno continuando a distruggere importanti risorse ittiche quali il pescespada, il tonno, parte del pesce azzurro (alici, sarde e sgombro) e tutte le specie ittiche demersali vittime della pesca a strascico, specie nei fondali entro i cinquanta metri ed entro le tre miglia.
I grandi predatori dei nostri mari, negli ultimi quarant’anni, hanno nomi precisi: lo strascico, specie quello sottocosta, come avviene nel Golfo di Catania (tipologia di pesca che produce oltre l’80% del pescato in rigetti a mare perché sottotaglia e invendibile); la rete a ciancioli con lampare, che avviene soprattutto in autunno e inverno quando il pesce azzurro è ancora piccolo e sottotaglia; le spadare, anche se ormai sono state abolite; le reti volanti, costituite da grandi reti a strascico trainate da due pescherecci che pescano il pesce azzurro; delle tonnare volanti a circuizione, un tempo libere da limiti di pesca, oggi con quote molto più limitate di cattura, restano in attività tredici nobili lobby, salernitane (con dieci natanti) e siciliane (con tre natanti) al servizio di multinazionali per il mercato giapponese del tonno rosso. Forse il Ministero sta pensando di aumentarle di altre quattro unità, dopo averne fatte dismettere una trentina con un bel corrispettivo economico, pagato dalla collettività, appena dieci anni fa. Cancellate, invece, le poche storiche tonnare fisse esistenti.
A tutto questo dobbiamo aggiungere un’insensata gestione delle risorse giovanili di sarde e alici, il cosiddetto “bianchetto” o “neonato”, che fino a quattro anni fa è stato permesso di pescare, sia a natanti con autorizzazione che a moltissimi non autorizzati e perciò illegali. Questa volta sono piccole imbarcazioni, anch’esse dotate di potenti ecoscandagli, tutte localizzate nella regioni costiere del Sud Italia. Quella che potremmo indicare come “la strage degli innocenti”.
Tutta questa è storia dei pregi e dei difetti della pesca catanese e siciliana, ma anche di molte altre marinerie italiane, dove spesso le stesse istituzioni locali e nazionali preposte al governo e alla sicurezza del settore, hanno strizzato l’occhio a interessi corporativi e settoriali, mancando nel loro ruolo istituzionale super partes e omettendo i necessari controlli dovuti.
Insomma, il modello che si è affermato e che sostanzialmente continua a essere perpetrato è tutto improntato alla soddisfazione immediata ed egoistica del bisogno individuale e/o di piccolo gruppo, con la cancellazione assoluta di una prospettiva di equa distribuzione delle risorse e a una loro gestione che guarda al mantenimento futuro della risorsa ittica. E la risorsa ittica, specie quella pelagica e migratoria è un “bene comune universale” patrimonio dell’umanità.
In tal senso sono state decisive le politiche di implementazione che i fondi, inizialmente nazionali e poi europei, hanno dato al sostegno del settore, dove l’idea di uno sviluppo illimitato durerà fino alla fine degli anni Novanta. Non c’è stata la consapevolezza, spesso in malafede, che le risorse ittiche, come tutte le risorse naturali, fossero limitate e quindi suscettibili di politiche di salvaguardia. E questo non solo in alcune fasce di pescatori, ma anche e direi soprattutto nelle istituzioni di governo del settore, è mancata la volontà di gestire il settore in maniera integrata, dando gli indirizzi e le regole giuste per governare un mondo complesso quale è quello dell’interazione tra l’uomo e il mare, nel senso più ampio che questa interazione può significare.
Sembrerò un nostalgico del mondo che fu, ma l’unica via che oggi ci può fare ritornare a una pesca compatibile e rispettosa dei cicli biologici del pesce è il modello della piccola pesca costiera che i nostri padri praticavano ancora negli anni Sessanta. Lì per millenni, attraverso la trasmissione orale e quotidiana dei saperi, attraverso l’esperienza di ogni notte e di ogni giorno, il piccolo pescatore costiero diventava architetto del mare, costruendosi un atlante della memoria diveniva al tempo stesso meteorologo, biologo, astronomo, geografo ed economo del suo stesso destino. E qui “le mani e l’acqua salata”, diventano simbolo ed emblema di un mestiere limpido, trasparente e dolcemente pesante. Ma estremamente “bello”. Le mani sono il mezzo che guida l’azione quando si cala e si tira la rete, quando si smaglia l’alice, una a una e poi quando si salano le stesse alici che diventano acciughe. L’acqua salata è quella che, nel freddo inverno marino, ti sbuffa in faccia dall’impatto della barca con le onde agitate e ti gela le dita quando tiri la rete e smagli il pesce. Ma le mani sono dell’uomo e l’acqua salata dell’universo mondo, in un incontro ancestrale.
Di questo mondo fu degno interprete mio padre Carmelo. A ottantasei anni, lui che da quando aveva undici anni andava per mare, diceva così: «Il nostro mestiere è ancora il più bello e affascinante fra quelli che si praticano nel Golfo di Catania. Perché è un mestiere dove veramente le nostre conoscenze, quello che abbiamo imparato e che ci hanno trasmesso le generazioni di pescatori prima di noi, restano punti di riferimento di cui non si può fare a meno. Per chi usa la menaide (piccola rete per pescare le alici, “le masculine” come le chiamiamo nel catanese) sono i cicli naturali di vita del pesce, in questo caso della masculina, a guidare il tempo delle attività di pesca. E più che l’ecoscandaglio contano e bisogna conoscere i venti, le correnti marine, i diversi fondali. Per fare una grande pescata di masculina è importante sapersi regolare con l’apparizione di alcune stelle nell’orizzonte durante le notti di primavera e d’estate, interpretare i movimenti della luna, cogliere i momenti giusti all’alba o al tramonto. Tutte queste cose non s’imparano sui manuali ma ogni giorno o notte che sia, di anno in anno. Così noi, piccoli pescatori costieri, ci costruiamo un libro della memoria che poi ci serve per il lavoro quotidiano e nel corso della vita». (gaetano urzì)
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