Martedì 6 marzo, mentre io e mia figlia M. stavamo ancora facendo colazione prima di andare a scuola, il cellulare ha cominciato a squillare. Un messaggio dietro l’altro, tutte risposte allarmate al primo della catena: “A San Giacomo è pieno di polizia. Tutte le imboccature della piazza sorvegliate, stanno entrando”. Erano cinque mesi che ci preparavamo a questo momento, anche se la calma apparente della campagna elettorale ci aveva abituato a uno stato di precarietà vigile ma durevole.
Cinque mesi fa, si era a fine settembre, alcuni di noi – dove “noi” sta a designare una comunità che si è venuta formando solo in un secondo momento, quindi forse qui non dovrei usare ancora il “noi”, ma non saprei in che altro modo riferirmi a queste persone –, insomma, alcune persone che sono poi entrate a far parte della mia quotidianità, ma che allora conoscevo solo di striscio, sono riuscite a entrare nei locali dell’ormai ex Ocrad (Organismo culturale ricreativo assistenza dipendenti) della regione Veneto, in Campo San Giacomo da l’Orio. Ci troviamo a Venezia, Sestiere di Santa Croce, una delle poche aree in cui ancora esiste una vera vita di quartiere, affacciati su una piazza (“campo”) intensamente vissuta dai suoi abitanti, terreno di scorribande dei bambini della zona. Negli ultimi anni i bar e i ristoranti con i loro plateatici si sono moltiplicati, un palazzo ex sede universitaria è stato trasformato in un albergo di cui si attende a breve l’inaugurazione, nel circondario gli appartamenti affittati ai turisti non si contano più.
La sede dell’Ocrad si trovava al pianoterra di una palazzina sul lato ovest del campo. In origine questo luogo ospitava l’Antico Teatro Anatomico della città, poi bruciato; nel corso dei secoli ha svolto le più svariate funzioni, tra le quali si annoverano quella di biblioteca e archivio del Collegio dei medici e chirurghi veneziani, la prima scuola di ostetricia in Italia, deposito di materiali edili, taverna, sede dell’Arcigay, infine ufficio regionale infra-utilizzato. Di recente l’immobile era stato inserito dalla Regione nella lista dei beni alienabili e più volte messo all’asta, senza successo. Finalmente il 21 settembre scorso è stato venduto, tramite trattativa privata, a un imprenditore locale, proprietario di grandi catene di supermercati, il quale sin da subito ha mostrato l’intenzione di trasformarlo in un ristorante. L’ennesimo. Senonché, c’è un piccolo dettaglio: secondo il piano regolatore l’immobile può essere adibito solo ad attività socio-culturali. Per farci un ristorante occorrerebbe un cambio di destinazione d’uso, che tuttavia non è competenza del governo regionale, ma del Comune. Un dato che non sfuggiva alle persone che quel giorno di fine settembre hanno deciso di entrare nei locali e riaprirli alla cittadinanza, convinte che la finalità di un bene pubblico dovrebbe essere tutt’altra, e di fatto i comitati di cui fanno parte da più di un anno avevano avanzato delle proposte in tal senso alla Regione. Non hanno mai ricevuto risposta.
L’azione di riapertura degli spazi dell’Antico Teatro di Anatomia, più noto a tutti come Vida (“vite” in dialetto, dalla frasca che incorniciava l’entrata dello stabile ai tempi della taverna), ha inaugurato una nuova stagione di partecipazione in città. Sin dal primo giorno questi duecento metri quadri sono stati animati da un viavai costante di persone di ogni età ed estrazione sociale, bambini, studenti, anziani, che si ritrovavano per assistere a letture, mostre, concerti, spettacoli, pranzi condivisi. Diversi collettivi vi hanno tenuto le loro riunioni periodiche, gruppi di teatro e danza ne hanno fatto la loro sala prove; chi ci veniva per studiare, chi per giocare (la stanza adibita a ludoteca ne era forse il centro nevralgico), chi semplicemente per ritrovarsi. In questi mesi la Regione ha rifiutato tenacemente ogni invito ad aprire un tavolo di discussione: loro non parlano con chi occupa illegalmente, dicono. Ma qui, in campo, nessuno parla di occupazione. Per tutti coloro che in questi mesi hanno partecipato, anche solo sporadicamente, alla vita di questo luogo, si è trattato di un’opportunità impagabile per sperimentare nuove modalità di cittadinanza attiva. Un luogo aperto 24 ore su 24 grazie alla turnazione volontaria, nel quale ognuno poteva entrare e proporre un’attività, senza pagare un centesimo, solo apportando la propria voglia di condividere saperi, o semplicemente momenti, con altre persone. Un luogo che non si è spento neanche quando a novembre ci sono stati tolti luce e riscaldamento, pensando che bastasse così poco per farci fare fagotto e tornare al calduccio nelle nostre case, con la coda fra le gambe. Così non è stato, e a lume di candela, rifocillandoci con tisane e stufette, si è proseguito con una programmazione sempre ricchissima, fino a quel piovigginoso martedì 6 marzo, un giorno dopo la chiusura dei seggi elettorali, quando centocinquanta agenti tra polizia, carabinieri, digos e guardia di finanza hanno circondato campo San Giacomo per dare inizio allo sgombero.
Ho portato M. a scuola prima di raggiungere chi già era accorso sul posto e assistere impotente all’occupazione – ora sì – di quella che era diventata la casa della città. È stato permesso solo a una persona di entrare per iniziare a portare fuori tutte le nostre cose, mentre un’altra – che aveva fatto il turno di notte – era trattenuta all’interno dagli agenti che procedevano a identificarla (altre sei persone sono già sotto processo per questa vicenda). Gli altri attendevano sulla soglia e facevano a catena per mettere in salvo mobili, giocattoli, libri, strumenti musicali, materiali elettronici e quant’altro, il tutto accatastato in mezzo al campo e coperto da teloni di plastica per proteggerlo dalla pioggia, che continuava a cadere fina e insistente. Arrivava sempre più gente e, asciugate le lacrime, tutti si davano da fare per organizzare quello che, nel primo pomeriggio, era già diventato un piccolo accampamento. Verso ora di pranzo è comparso del cibo, perché alla Vida succede sempre così: appena inizi a sentire i primi accenni di fame arriva qualcuno e porta da mangiare per tutti. Sotto lo sguardo tra l’annoiato e il divertito dei poliziotti sono stati montati dei gazebi, tutte le cose sistemate in modo più razionale, è spuntato il sole e in un angolo è stato organizzato lo spazio bimbi; ed ecco che per l’ora in cui era stata convocata un’assemblea generale d’emergenza, la Vida si era già ricostituita, trasformata ora in un presidio all’aria aperta.
Quando alle 16 sono andata a prendere M. a scuola, prima di portarla a San Giacomo l’ho avvertita. È successa una cosa, le ho detto, la Vida è stata chiusa. Perché mamma? – mi ha chiesto già coi lucciconi agli occhi. Perché secondo la legge non avevamo diritto di stare lì, e allora è arrivata la polizia, ho cercato di riassumere. Ma che fastidio dava? – ha protestato M. – la Vida non era pericolosa, non era mica una fabbrica di pistole! No, è vero, non lo era. Ma non è finita qui! – ho esclamato con tono falsamente entusiasta, sperando di suonare almeno un pochino convincente – Vedrai in campo com’è bello. È tutto fuori adesso! E per fortuna la Vida è venuta in mio aiuto, e quella che poteva essere l’ennesima frottola per calmare il pianto di un bambino si è invece rivelata la realtà dei fatti: durante l’assemblea forse più partecipata di sempre si è deciso di proseguire a oltranza, mantenendo la programmazione ma adattandola al nostro presidio outdoor, e di convocare una manifestazione per il sabato successivo. Che è poi stata un successo incredibile, sia per la gente accorsa, sia per il coinvolgimento con cui è stata vissuta. La Vida ci continua a insegnare tante cose, a me e alla mia seienne: che i luoghi favoriscono le relazioni, ma che una volta create, queste relazioni possono anche prescindere dai luoghi; che c’è bisogno di cura, degli altri e di ciò che con loro condividiamo; che il concetto di “mio” o “tuo” sbiadisce di fronte a un imperioso “noi”; e che il “noi” a sua volta può essere escludente o includente, tutto sta a che accezione decidiamo di aderire; che nulla è perduto anche quando vorrebbero farti credere il contrario, ma c’è bisogno di tirar fuori delle energie che non si pensava neanche più di avere, e questo in effetti è un lavoraccio; ma anche che una volta avviato un processo virtuoso, altri ne possono scaturire come in una reazione a catena, e chissà dove si può andare a finire. “La Vida è ovunque”, gridano le scritte a pennarello apparse sui cartelloni elettorali che cominciano a sbiadire. Quattro parole che sanno tanto di rinascita. (caterina borelli)
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