Dal 7 dicembre è in libreria a Napoli, oltre che acquistabile on-line (sia in formato cartaceo che elettronico), L’infelicità italiana. Vademecum sull’accoglienza, i migranti e noi, di Maurizio Braucci, con copertina di cyop&kaf. Ne pubblichiamo a seguire un breve estratto.
Dalla prossima settimana, il libro sarà in distribuzione anche a Milano, presso la Libreria Popolare (via Tadino, 18) e la libreria Hoepli (via Hoepli, 5).
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Boubakar, un ventitreenne della Guinea, è uno degli ospiti del servizio Sprar di Cosenza dove lavora Luca, il geologo. Quando viveva a Konakry era un giovane membro del partito di opposizione Ufdg (Union des forces democratiques de Guinée); organizzava le riunioni degli iscritti e partecipava alle campagne elettorali, poi l’aria si è fatta brutta in città, alcuni suoi compagni hanno iniziato a sparire, le riunioni a essere disertate e alla fine anche lui si è sentito in pericolo, così ha deciso di partire, di fuggire. È emigrato prima in Niger, poi in Mauritania, avvalendosi del soccorso del suo partito che è presente in quasi tutta l’Africa occidentale. A volte ha lavorato, altre volte ha chiesto soldi a casa ma alla fine ha sempre dovuto scappare dalla repressione antidemocratica e dopo quattro anni di continui spostamenti è arrivato in Libia.
La Libia è sempre stata un mercato di lavoro per gli africani sub sahariani: uomini e donne andavano lì con l’obiettivo di far soldi e poi magari partire per l’Europa. In risposta alle tante barche di migranti dirette verso le sue coste, l’Europa ha avuto un’idea diabolica: chiedere al dittatore Gheddafi di bloccare i flussi di migranti in cambio di denaro e di agevolazioni politiche e commerciali. In questo modo ha permesso che si creassero dei veri e propri lager che sono presto diventati una nuova fonte di economia per i libici, all’inizio nelle mani dell’esercito e dei paramilitari.
Quando Boubakar è arrivato in Libia, Gheddafi era appena stato assassinato. Con il paese in subbuglio,per un attimo le detenzioni si sono fermate, poi i governi europei hanno ricominciato a fare pressione per ristabilire l’ordine dei lager e delle prigioni.Il primo accordo che rende la Libia una vedetta italiana contro l’immigrazione è stato firmato dal ministro dell’interno leghista Roberto Maroni nel 2008, rinnovato dal suo successore Annamaria Cancellieri nel 2012 ed esteso e rafforzato dal ministro del PD Marco Minniti nel 2017.
Il risultato di questi accordi è che se sei nero e arrivi in Libia ogni criminale libico può catturarti e rinchiuderti da qualche parte con altri disgraziati. Si è creata così una vera e propria categoria di predatori di uomini. Gli Aasma Boys sono gruppi armati che riescono a ottenere due fonti di guadagno: soldi dal governo per il servizio che svolgono (i soldi italiani degli accordi tra i due paesi), soldi dalle famiglie dei loro prigionieri. Come? Semplice: li torturi, e mentre gridano chiami le loro famiglie col loro cellulare e dici a chi risponde: ascolta, mandaci i soldi o lo ammazziamo. Boubakar ha subito questo trattamento per quattro volte: liberato, catturato, torturato, di nuovo liberato, come il gatto fa col topo. La cifra media per il riscatto è stata di cinquecento euro, poi finalmente è riuscito a mettere i soldi nelle mani di uno scafista che lo ha salvato. Lo ha messo su un barcone in cui stavano seduti uno sull’altro in centoventi, poi si è diretto al largo del Mediterraneo, mentre un’altra barca li seguiva. Quando lo scafista è stato certo di essere in acque italiane ha staccato il motore e se l’è portato a bordo dell’altra barca, lui e i suoi sono tornati in Libia lasciando Boubakar e gli altri alla deriva. È probabile che gli stessi scafisti mentre scappavano abbiano lanciato l’SOS.
Come dicevo, parlare con gli italiani oggi di immigrazione è diventato impossibile. Se da una parte i cittadini italiani proiettano i loro desideri su dei politici, dall’altra proiettano le loro paure su degli stranieri, ombre che arrivano dal mare nella notte, come zombie. Per quanto siano recitate a ogni angolo nessuno crede più alle formulette per cui “ci portano via il lavoro” o “spendiamo più per loro che per noi”. Questa è solo la maschera, la versione semplicistica, la fabula da raccontare per non approfondire la questione: la propria insoddisfazione, la propria infelicità. Nella teoria economica cresce sempre più la diffidenza verso la misurazione del Pil, il Prodotto interno lordo, come criterio esclusivo per valutare il benessere di una nazione. È un indice classico che non rende più l’idea della complessità sociale, nella valutazione dello stato economico i flussi monetari dovrebbero essere integrati da quelli relazionali e dai valori condivisi (per esempio, il lavoro ha un aspetto economico ma anche relazionale).
Il benessere italiano, insomma, non è solo una questione reddituale, ma anche su quella le cose non vanno bene,i rapporti Bes (Benessere equo e sostenibile) dell’Istat parlano per il 2016 di un leggero incremento (+1,7) del reddito pro capite dopo i tracolli cominciati nel 2008, secondo una tendenza che dura dal 2014, ma il potere d’acquisto degli italiani è sceso (-9,7%) rispetto agli altri popoli dell’euro; la diseguaglianza di reddito tra i ceti sociali è cresciuta (l’indice di Gini,che misura la concentrazione in poche mani del reddito totale, è passato da 32,4 a 33,1 in due anni), il reddito medio al Sud è il 63% di quello al Nord; la quota dei poveri è cresciuta in un anno dall’11,5 al 12,1 ed è più alta del 5% rispetto ai paesi dell’area euro; se il 20,6% della popolazione è a rischio povertà (19,9% nel 2014) in maggioranza questo rischio riguarda i giovani. Il rapporto Bes 2017 ci dice poi che la soddisfazione che gli italiani esprimono per la loro vita è agli ultimi posti tra i paesi sviluppati dell’Ocse, seppure negli ultimi anni abbia dato qualche piccolo segnale di miglioramento (una curiosità: la Campania è la regione che si percepisce come più infelice in Italia, solo il 28,1%dei campani è soddisfatto della propria vita, contro il 64,3% di Bolzano).
La verità dell’approccio nevrotico (e a volte violento) contro l’immigrazione sta nell’infelicità degli italiani, nella percezione chiara e netta e vera che essi hanno di essere ormai un popolo che viene estromesso dalla storia. Gli italiani e le italiane si sentono abbandonati dallo stato, che non si cura di loro se non come numeri dei suoi conti da far quadrare, e dall’Europa che li ha relegati alla funzione di un molo su cui la storia approda solo per travolgerli, passandogli sopra con migliaia di disperati che invece non si danno per vinti e affrontano viaggi pericolosi pur di affermare la propria esistenza. Esattamente il contrario di quello che fanno gli italiani, incapaci ormai di battersi per i propri diritti, schiacciati dalla cecità dello stato e dall’avidità del mercato. La storia è piuttosto fatta da quelle “piccole vite” che escono dalle ombre di un continente ignoto e gridano: io sono!
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