Il numero 2 de Lo stato delle città è anche a Roma, alle librerie Giufà (via degli Aurunci, 38), Alegre (circonvallazione Casilina, 72/74) e Assaggi (via degli Etruschi, 4); a Ventotene, alla libreria Ultima spiaggia (piazza Castello, 18); a Bologna, al Modo Infoshop (via Mascarella, 24).
Pubblichiamo dal nuovo numero l’articolo di Stefano Portelli, Le città e lo stato.
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Non potremmo immaginare riflessione politica più urgente di quella evocata dai due elementi che formano il nome di questa rivista, le città e lo stato. Due questioni al centro di tutti i movimenti che vediamo diffondersi in Europa: da una parte l’estendersi del modello urbano, con le sue catastrofiche conseguenze ambientali; dall’altro le trasformazioni che il neoliberismo impone allo stato nazionale, minandone la legittimità. Pensiamo al movimento dei gilet gialli in Francia e al conflitto catalano. Il primo esplode per una questione legata alla mobilità, che oppone chi vive nelle campagne o nelle banlieue alle élite che occupano i centri urbani. Il secondo mette in discussione il diritto di uno stato di decidere su un territorio che non si riconosce nelle sue leggi, unendo metropoli e campagne sperdute. Entrambi subiscono attacchi da due fronti: da una parte la repressione delle istituzioni – quelle democratiche francesi che spappolano occhi e mani ai manifestanti, quelle autoritarie spagnole che costringono a fuggire e imprigionano i politici catalani; dall’altra le manipolazioni della stampa, sia locale che europea, che fanno passare queste proteste come campaniliste, xenofobe e antimoderne.
David Graeber e altri hanno fatto notare che oggi il cosmopolitismo appartiene solo alle élite. Quindi ogni progetto che reclami la difesa di un territorio o di una comunità è passibile di essere stigmatizzato come localista, egoista, ma anche, a seconda dei casi, populista, xenofobo, antisemita, mafioso, o comunque contrario all’interesse collettivo, identificato sempre con quello nazionale. È il “disprezzo per il popolo” di élite che riconoscono come valida solo la propria visione, e che considerano le masse come irrazionali e pericolose. Lo predicavano i sociologi ottocenteschi Tarde e Le Bon, a cui si opponevano Durkheim, Mauss e tutti coloro che invece riconoscevano la creatività dell’effervescenza collettiva, superiore al calcolo individuale del singolo.
Chiunque sia coinvolto nei movimenti di base (senza esserne un leader) riconosce nelle organizzazioni delle proteste, che anche nel disordine e nelle contraddizioni si rivela l’intelligenza collettiva, la profondità storica delle rivendicazioni. Giornali e tv invece non vedono mai soggetti collettivi: interagiscono sempre con i capi, con le personalità mediatiche, non immaginano neanche un’entità pensante che non sia un individuo singolo (tendenzialmente maschio e bianco). Per questo alimentano personalismi, che presentano come salvifici o minacciosi, stimolando il narcisismo dei leader e la delega da parte degli altri, ma non riescono a capire né a rappresentare chi, come i gilet gialli, rifiuta di affidarsi a dei capi, né chi, come il movimento catalano, invece di delegare riesce a imporre ai leader di obbedire alla base.
Il caso catalano da questo punto di vista è esemplare. Solo se si ha avuto un contatto profondo con la società da cui emerge la questione indipendentista si capisce quanto sia insensato il parallelo che tracciano tanti commentatori “cosmopoliti” con i regionalismi del nord Italia, o l’idea della manipolazione delle masse da parte di politici populisti. Le origini dittatoriali dell’ordinamento giuridico spagnolo dovrebbero già screditare l’analogia, e così le sproporzionate pene che i politici catalani rischiano di vedersi comminare dal Tribunal Supremo di Madrid. Chi ha seguito questo “processo” sa che l’esigenza di fondare un nuovo ordine territoriale emerge da una società civile particolarmente attiva, che da decenni contesta allo stato nazionale scelte politiche disastrose, tanto in ambito urbano come rurale. Si pensi al caso del Transvasament del fiume Ebro, una battaglia che per diciotto anni hanno combattuto gli abitanti della Catalogna meridionale contro il piano idrologico della destra di Aznar, poi ereditato dai governi successivi. Il piano prevedeva il travaso di mille miliardi di litri d’acqua dal fiume più grande della Spagna, il cui delta è un ecosistema già in pericolo, per alimentare le città e irrigare zone aride dove sono previste soprattutto nuove urbanizzazioni di lusso. Proprio a fine marzo, il Tribunal Supremo ha respinto il ricorso della piattaforma che chiedeva la conservazione della biosfera del delta, ignorando anche le raccomandazioni della Commissione europea.
In questo come in tanti altri casi, l’adesione alla battaglia contro lo stato spagnolo non si deve certo al ritorno dell’irrazionalismo identitario, alla riscoperta di bandiere e frontiere, ma alla consapevolezza che all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale non sarà mai possibile vincere battaglie fondamentali per salvaguardare il territorio e la popolazione. La situazione catalana ci mette in crisi perché è la prima occasione in cui una comunità territoriale, come tutte composita e in perpetuo conflitto interno, trova un fronte comune in cui incanalare le battaglie che la attraversano, comprese quelle che la opponevano alle proprie autorità regionali. Le contraddizioni che questo rappresenta (esempio: come comportarsi con le élite locali trasformiste che prima appoggiavano le speculazioni dello stato spagnolo e ora sostengono l’indipendentismo?) sono ardue da risolvere per chi vi si trova immerso, ma assolutamente fuori dalla portata di chiunque pretenda di giudicarle dall’esterno. Tutto questo dovrebbe generare curiosità, empatia verso chi si trova ad affrontarle mettendo in gioco il proprio corpo e la propria libertà; non la diffidenza e il cinismo che esprimono invece la maggior parte dei commentatori nostrani.
Il cosmopolitismo elitista che esprimono i media e gran parte del discorso accademico riconosce nelle istituzioni statali presenti l’unico referente politico valido; è ossessionato dallo stato e dalla sua organizzazione; nonostante la sua pretesa globalità, è intrappolato all’interno del proprio mondo urbano, vede solo i centri storici e i quartieri bene, e li immagina circondati da ignoranza e barbarie. Le mobilitazioni di questo millennio, invece, emergono tutte da zone periferiche, rurali e dimenticate, che vedono le città e i loro centri come zone da riconquistare (pensiamo a piazza Tahrir o a plaza del Sol), e che scelgono forme di organizzazione implicitamente “contro lo stato”, anche quando mirano a creare un nuovo ordine territoriale, come nel caso catalano. Nella pratica, esse contraddicono la struttura della delega individuale che presiede alle istituzioni statali; infatti si svuotano di contenuti e di potenza non appena sono spinte a farsi partito, a integrarsi nell’ordine istituzionale esistente. Il caso dei vari “sindaci ribelli” lo illustra magistralmente (l’avverbio ideale!): il neo-municipalismo a cui si rifanno questi esperimenti è eminentemente urbano, vede il mondo come una rete di città governate da dirigenti illuminati che agiscono all’interno delle strutture istituzionali esistenti. Si differenzia profondamente dal municipalismo degli anni Novanta, che tentava di costruire nuove forme di rappresentanza avendo referenti centrali nelle lotte contadine e indigene del Sud del mondo.
Dalle inchieste che presentiamo qui e nel sito di Napoli Monitor emerge spesso come l’unica intelligenza in grado di cambiare le cose sia sempre un prodotto collettivo. Le persone sono più lucide, coerenti e in grado di organizzarsi di come vengono rappresentate; se la cronaca insiste su individui irrazionali e malvagi, o su quartieri e territori “senza legge”, è proprio per nascondere la capacità dei gruppi umani di autodeterminarsi al di fuori dello stato. Sbandierando il disordine e l’ambiguità del popolo si legittimano sia le politiche pubbliche accentratrici che le iniziative private paternaliste e/o speculative. I poteri hanno bisogno di questa narrazione stigmatizzante per continuare a legittimarsi, ma le mobilitazioni di questi anni mostrano invece come solo da una riconfigurazione dei rapporti sociali su base territoriale, dalla creazione di nuove comunità, i cui confini e le cui forme organizzative sono tutte da determinare, si può contrastare la deriva autoritaria e predatrice che hanno assunto gli stati nazionali, l’Unione Europea che li tutela e le élite urbane che li dirigono.
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