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30 Aprile 2019

Spagna, i socialisti vincono le elezioni ma la strada del governo è tutta in salita

Victor Serri
(disegno di otarebill)
(disegno di otarebill)

Domenica 28 aprile lo stato spagnolo è stato chiamato al voto. Dopo una lunga campagna elettorale, in cui il dibattito è stato legato più all’unità nazionale che alla volontà di sviluppare cambiamenti sociali, i cittadini spagnoli hanno deciso. Il partito vincente in quasi tutte le comunità autonome è stato il Partito Socialista (PSOE) dell’uscente primo ministro Pedro Sánchez, con il 28,68% dei voti (123 seggi). Le uniche regioni che hanno preferito altre formazioni sono state la Catalogna, dove ha vinto Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), un partito indipendentista repubblicano di sinistra; il paese basco, con il Partito Nazionale Basco (PNV), e i navarresi con Navarra Suma, una piattaforma integrata dal Partito Popular (conservatori) e Ciudadanos (neoliberali). Sembrerebbe che lo stato spagnolo abbia preso una direzione più progressista, ma le cose non sono così semplici. Il PSOE infatti non arriverà da solo ai 176 seggi necessari per governare, e dovrà trovare uno (o più) possibili alleati.

Alta affluenza

I cittadini dello stato spagnolo hanno partecipato in massa alle elezioni, arrivando a un 75,75% di affluenza, il secondo valore più alto nella storia democratica degli ultimi venti anni. Alte affluenze hanno sempre favorito i socialisti, come nel 2004, quando Zapatero vinse contro Aznar, in seguito anche agli errori politici dei popolari che negarono le responsabilità del terrorismo internazionale negli attentati del 11 marzo, colpevolizzando i baschi. La maggiore variazione nell’affluenza si è notata in Catalogna, dove ha superato il 77%, superando di oltre tredici punti le passate elezioni del 2016. In questo caso l’alta affluenza non era un sintomo della volontà di punire il governo uscente (che, al contrario, è stato premiato), ma per sventare la minaccia reale di un possibile governo di destra: PP, Ciudadanos e VOX, la formazione neofranchista conservatrice, andata alla ribalta dopo il risultato alle elezioni in Andalusia del dicembre 2018. E infatti sono loro i nuovi protagonisti dello scenario nazionale.

L’estrema destra entra nel parlamento spagnolo

Con un risultato di 24 seggi (il 10,5%), il partito di estrema destra VOX irrompe nel parlamento spagnolo. Che sarebbero entrati era cosa nota ormai, ma la presenza del partito è andata molto più in là. In parte sostenuta da televisioni private (che ne intervistavano i leader quasi ogni giorno, facendo loro una campagna elettorale quasi gratuita) e con una grossa capacità comunicativa basata sul discorso dell’odio, è riuscita a fagocitare il PP, arrivando quasi in tutte le circoscrizioni territoriali dello stato spagnolo. Nonostante questa sua entrata dirompente, non riuscirà a formare un governo con PP e Ciudadanos, perché la somma dei loro seggi sarà inferiore ai 176 necessari. Ma questo non vuol dire che VOX non potrà cercare di spostare l’asse dei dibattiti politici sempre più a destra.

Crollano i Popolari e Podemos

In queste elezioni, chi ha visto ridursi notevolmente il proprio sostegno popolare sono essenzialmente due partiti: il PP e Podemos. Il nuovo leader dei popolari, Pablo Casado, nonostante abbia utilizzato un discorso molto esagerato e in parte estremo (per esempio, chiedendo l’ergastolo per gli indipendentisti catalani), non è riuscito a convincere come il suo predecessore, l’ex primo ministro Mariano Rajoy. Si è trovato compresso tra due altri partiti altrettanto nazionalisti, come VOX e Ciudadanos, e, incapace di gestire la situazione, ne è rimasto schiacciato. Il PP è sceso da 137 a 66 seggi, solo pochi di più rispetto ai 57 di Ciudadanos.

Un altro partito che ha preso una batosta è stato Podemos, incapace di proporre alternative tanto all’estrema destra in crescita, come alla complessa questione catalana. Da 71 deputati è sceso a 35, riducendosi all’11,95%. Non è un dettaglio: perdendo anche la leadership in Catalogna ed Euskadi, Podemos diventa la quarta forza politica del paese, riducendo ancora di più la propria capacità di negoziazione con i socialisti. Se nei mesi del 2017, quando in Catalogna si parlava di referendum e nello stato spagnolo si cercava di impedirlo con la forza, erano gli unici a parlare di dialogo, questa parola è quasi scomparsa dalla campagna elettorale, semplicemente improntata agli ipotetici miglioramenti sociali che avrebbero potuto fare in sostegno al partito socialista.

Difficili accordi

Con questi numeri, le alternative che hanno i socialisti per governare sono abbastanza limitate. O si alleano con Podemos ed ERC, o cercheranno di farlo con i neoliberali di Ciudadanos. Quest’ultima possibilità è stata continuamente esclusa dal leader del partito arancione, Albert Rivera, che però potrebbe modificare il suo discorso per un po’ di potere. Ciudadanos, infatti, non riesce a consolidarsi come prima forza dell’opposizione, come da anni è riuscito a fare in Catalogna, lasciando un ruolo subalterno al PP. Inoltre, già nel 2016 Sánchez e Rivera firmarono un accordo “progressista e riformista” con l’intenzione – frustrata – di formare un governo. Oltre a dare meno grattacapi a Sánchez, questa sarebbe la soluzione ideale per mantenere un blocco nazionalista spagnolo con alcuni elementi progressisti, ben diverso dal nazionalismo conservatore degli anni del Partido Popular.

L’alternativa a sinistra sarebbe una coalizione tra PSOE, Podemos ed ERC. Quest’opzione sarebbe certamente più progressista, ma con notevoli problemi: in primis il fatto che il candidato di ERC, Oriol Junqueras, è attualmente in prigione a Soto del Real (Madrid), e sotto processo per il referendum di autodeterminazione del 1 ottobre 2017. Inoltre, si aggiunge il fatto che Podemos vede notevolmente ridotta la sua forza, correndo il rischio di lasciarla all’opposizione.

È anche vero che secondo le prime dichiarazioni di Sánchez l’intenzione sembra quella di governare in minoranza. Probabilmente, sotto la minaccia di nuove elezioni, cercherà di ottenere un’investitura come presidente da parte di Podemos ed ERC. Ma il problema si ripresenterà quando si tornerà a parlare di legge finanziaria. Era stata proprio questa complessa somma di forze a farlo cadere proprio sullo stesso scoglio, e a quel punto potrebbe verificarsi una virata verso gli arancioni di Ciudadanos, che tutto sono meno che socialdemocratici. Si prospettano quindi mesi complessi, anche considerando le prossime elezioni comunali previste il 26 maggio.

Una Catalogna indipendentista sempre più a sinistra

Un risultato importante è legato anche al processo indipendentista. Se il primo partito sono i socialdemocratici di Esquerra Repúblicana de Catalunya (ERC) con 15 seggi, risulta anche evidente che chi ne ha pagato il prezzo sono stati i neoliberali di Junts per Catalunya, eredi, almeno in parte, di Convergència Democràtica, lo storico partito della destra catalana. I catalani hanno visto in ERC il partito più posizionato contro il neofascismo di VOX. Durante i mesi precedenti alle elezioni, le differenti destre avevano potuto imporre mediaticamente la narrazione secondo la quale la Catalogna era spaccata a metà tra “catalani e spagnoli”, rispetto al sistema educativo, all’applicazione dell’articolo 155 (il commissariamento della regione da parte del ministero dell’interno), la televisione pubblica catalana o la convivenza pubblica ormai inesistente. Su 48 seggi, le tre destre hanno ottenuto un totale di 7 deputati; tutti gli altri seggi sono andati a chi non ha accettato questo discorso incendiario. Nonostante VOX abbia ottenuto un seggio nella circoscrizione di Barcellona, è evidente che l’indipendentismo catalano non ha risvegliato il fascismo in Spagna, ma sicuramente lo combatte – almeno alle urne. (victor serri)

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