Mi sarebbe piaciuto poter dire che mio figlio rientra a scuola grazie alle lotte, alle mobilitazioni di genitori e insegnanti, uniti in un patto educativo, vera comunità educante, simbolo di quella virtuosa relazione che si dovrebbe instaurare tra scuola e società, ma purtroppo non è così.
Certo, in piazza ci siamo stati, e l’impegno di alcuni gruppi, minoritari ma non per questo remissivi, soprattutto di genitori e di alcuni, pochi, insegnanti è stato encomiabile. Da almeno un anno, a dispetto di chi ha offeso, vomitato accuse, insultato, portando avanti una campagna di mistificazione intollerabile, ci siamo visti in piazza del Popolo, di fronte al Ministero, davanti a Montecitorio, e come noi tanti altri a Napoli, Firenze, Milano, più e più volte, sfidando zone rosse e divieti per chiedere che non toccassero la scuola, che non replicassero anche quest’anno le politiche scellerate dell’anno scorso.
In attesa che la scuola venisse messa finalmente al centro dell’agenda politica di questo paese, che al centro non c’è mai stata (perché di governi pessimi e ministri peggiori ne abbiamo avuti tanti, che in confronto l’Azzolina pare quasi la Montessori, da Medici a Malfatti, da Gui a Scalfaro, o più recentemente, Profumo, Giannini e Bussetti, per non parlare di quelli progressisti che, tolto De Mauro, hanno fatto veri e propri disastri), chiedevamo e chiediamo sì finanziamenti, sì interventi strutturali, sì la diminuzione del numero di alunni per classe, ma anche un po’ di fantasia. Di immaginazione. Che il modo migliore in questo paese per non ottenere mai nulla è abbandonarsi a un velleitario massimalismo che non porta da nessuna parte, perché invocando interventi a lungo termine, poi, a fronte di una situazione devastata, in parte ereditata dal recente o lontano passato, ci si paralizza e non si ottiene neanche quello che si potrebbe invece raggiungere.
Fantasia e coraggio. Ci vogliono fantasia e coraggio, come sono sicuro avrebbe detto Rodari, per vedere la scuola “diffusa”, fuori e oltre l’edificio che contiene la relazione educativa, per ripensare il rapporto tra docente e discente, tra sapere e conoscenza, competenze, spazio, città e società, economia e cultura.
Fantasia e coraggio perché senza questi due ingredienti fondamentali sarà difficile spingerci tutti verso quella zona di sviluppo prossimale, come sono sicuro avrebbe detto Vygotskij, che spingendoci ad andare oltre e fuori da questo presente, ci devono spingere a re-immaginarlo diverso da come lo conosciamo, per promuovere una rivoluzione pedagogica quanto mai urgente.
Sostenere che questa rivoluzione di cui la scuola ha bisogno, di cui in tanti, dentro e fuori sentiamo l’esigenza, sarebbe stata ritardata, oscurata dal dibattito sull’apertura e la chiusura, come ho letto e ascoltato, è una follia.
Una follia che non prende in considerazione i danni educativi, sociali, culturali, che la chiusura in pochi mesi ha prodotto. Peggiori anche dei danni che una brutta e cattiva scuola ha fatto e fa. Che senza la scuola, ci scusi Illich, si sta peggio e non meglio. Che istituzioni alternative, la libera associazione di cittadini e cittadine capaci di supplire eventualmente a un processo di descolarizzazione sociale è ben lontano dall’essere una realtà, e gli stessi che la vorrebbero chiusa non mi pare siano appunto impegnati poi nei territori, nelle strade, nelle piazze con le loro voci, intelletti, energie, pronti a sostituirsi nel mentre che la rifondiamo da capo a dodici, a tenere in piedi una qualche forma di relazione educativa che sottragga bambini e ragazzi dall’isolamento e dall’atomizzazione.
In attesa che i rapporti di forza, che la nostra capacità di convincere strati sociali abbastanza vasti dell’esigenza di questa profonda trasformazione si faccia blocco sociale, almeno per il momento, non richiudiamo la scuola. No, chiusa no.
Spogliamoci dell’elefantiaca lentezza con la quale affrontiamo qualsiasi novità, e proviamo, mentre iniziamo questo importante lavoro di ribaltamento, a immaginare soluzioni anche provvisorie, che però permettano alla scuola di continuare a funzionare. Piccoli gruppi? Che piccoli gruppi siano. Metà classe? Che metà classe sia. Ma chiusa, o aperta solo per chi non può fare altrimenti, no, per favore no.
A lungo, per la maggior parte degli adolescenti, per molti bambini e bambine, per la maggior parte del tempo, l’unica decisione che è stata presa, in modo binario, rigido, burocratico, complici dirigenti e la maggior parte degli insegnanti, è stata questa: o aperta o chiusa.
Guardiamo in faccia la realtà, guardiamo in faccia quello che è accaduto in questi mesi proprio perché altrimenti i discorsi di chi la vuole trasformare rischieranno di vedersi ridotti a idealistici propositi. C’è da riguadagnare uno spazio, dentro la scuola e fuori, nella società. Ridurre profonde divaricazioni e risentimenti. Bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare sodo. Spostare luoghi comuni e convinzioni radicate. Non sarà facile.
Oggi la scuola riapre almeno per mio figlio. Proviamo a fare in modo che in qualche modo riapra per tutti e tutte. E resti aperta. (giovanni castagno)
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