Eravamo quattro amici al bar o forse cinque, il numero esatto non me lo ricordo. Ricordo il luogo, via Bezzecca, una traversa a due passi dalla stazione Termini, una stanza che sembrava un piccolo scantinato, dove si riuniva il comitato romano AEC, un gruppo di lavoratrici e lavoratori auto-organizzati che operano nelle scuole con ragazzi e ragazze con disabilità. Quelle riunioni erano più simili a incontri di supervisione, in cerchio parlavamo di quello che sembrava un prezzo inevitabile da pagare, perché tanto “nelle cooperative la situazione è questa”; raccontavamo la solitudine di lavorare in luoghi dove non sei riconosciuto rispetto al ruolo che svolgi, o alla funzione che dovresti avere, ultimo gradino di una scala gerarchica che ti confina in una marginalità educativa, spesso in un corridoio o in una stanza, insieme ai tuoi bimbi e alle tue bimbe con disabilità; parlavamo delle cooperative, che ti assumono pagandoti il meno possibile; di quanto sia difficile vivere quando ogni due-tre anni devi passare da una cooperativa all’altra, perché le gare d’appalto funzionano cosi; della difficoltà di mantenere lo stesso livello contrattuale e del dover cambiare regolamento interno, che spesso coincide con la tempistica degli stipendi: alcune cooperative pagano a trenta giorni ma molte altre pagano a sessanta, e se inizi a lavorare a settembre il primo stipendio lo percepisci a novembre.
Parlavamo di quanto questo lavoro ci logorasse. Pensavi di farlo per poco tempo e invece no, senza quasi rendertene conto ti ritrovavi a lavorare per cinque o dieci anni. Ci dicevamo dei tanti colleghi che lavorano nella scuola dalla fine degli anni Novanta, quando il servizio venne appaltato dal comune di Roma alle cooperative; dell’art.13 della legge 104/92, da cui tutto è partito, con l’obbligo per gli enti locali di garantire l’assistenza agli alunni con disabilità fisica o sensoriale; ci chiedevamo come mai, se c’era una legge nazionale, esistessero differenze tra una regione e l’altra, tra un comune e l’altro, a volte all’interno della stessa città con capitolati d’appalto differenti a seconda dei municipi. In alcune regioni questa figura non esiste nemmeno, in altre assume denominazioni differenti.
Raccontavamo dell’ipocrisia della figura del socio-lavoratore, perché le cooperative hanno bisogno di costruire un’immagine “solidale” di “corpo collettivo”, come se fossi parte di una famiglia. Ma la quota societaria è un’illusione, spesso devi pagare fino a settecento euro, e in alcuni casi di più, senza che vi sia un miglioramento delle condizioni lavorative, perché gli operatori subiscono imposizioni calate dall’alto come dei veri e propri lavoratori dipendenti. Parlavamo dei contratti part-time orizzontali e verticali, dei buchi salariali e contributivi durante i mesi di chiusura delle scuole, delle continue rimodulazioni al ribasso che subiamo di anno in anno: lavoratori pagati a cottimo che non percepiscono lo stipendio nei mesi estivi o nelle vacanze natalizie e pasquali, se la scuola chiude per l’allerta meteo o è sede elettorale; e poi la contraddizione dei contratti a tempo indeterminato, che non ti garantiscono continuità salariale perché non puoi chiedere l’indennità di disoccupazione nei mesi di chiusura della scuola, quando non vieni pagato.
Le riunioni si tenevano la sera tardi, perché se vivi di questo lavoro devi sommare più di trenta ore settimanali per tirare fuori uno stipendio minimo, e a volte nemmeno basta: per mantenerti devi svolgere un secondo lavoro, poiché il salario che ricevi spesso equivale a una pensione sociale. Incarnavamo il paradosso di essere essenziali per la scuola e molto “formati” per lavorare con la disabilità psichiatrica, malgrado i nostri salari non abbiano mai superato i sette euro netti, a fronte dei ventuno euro che il Comune paga per le ore di assistenza. Raccontavamo della “sfortuna” di non poter usufruire del diritto alla mensa, l’amarezza di entrare in alcune mense scolastiche e trovare la tavola apparecchiata per tutti tranne per noi, o quella di dover aspettare che il cibo venga servito prima agli altri e poi, se resta qualcosa, dato a noi come se facessimo “volontariato”.
Eppure siamo anche noi abitanti della scuola, che entrano in punta dei piedi nel mondo di ragazzi e ragazze e provano a mettere un po’ di umanità in un contesto dove la didattica prevale su tutto. Perché “da vicino nessuno è normale”, e allora spieghiamo l’importanza dei piccoli gesti quotidiani ai compagni dei nostri ragazzi, come tenerli per mano per accompagnarli a mensa, o supportarli e sostenerli nelle attività didattiche. “La follia – diceva Franco Basaglia – esiste ed è presente come la ragione”. La stessa che qualche anno fa ci spinse a preparare una delibera popolare.
Questa storia continua in un altro luogo, a Casal Bertone, in via Baldassare Orero, un posto più grande rispetto a via Bezzecca, che però, grazie alla sua dimensione circoscritta, ti trasmetteva un grande calore umano. È lì che decidiamo di dare una direzione politica precisa ai nostri incontri e scriviamo insieme una delibera, un documento per bloccare gli appalti alle cooperative e obbligare il Comune ad assumersi la responsabilità del servizio. “Nessuno deve restare indietro”, proprio come i nostri ragazzi e ragazze. Il rimedio alle condizioni di “marginalità” che viviamo tutti i giorni, doveva essere l’assunzione immediata del personale sulla base esclusiva degli anni di anzianità.
I pilastri della delibera erano gli articoli 1 e 2, in cui si sanciva l’istituzione di una graduatoria basata sull’anzianità di servizio e l’affidamento dello stesso a un’azienda speciale: in tal modo il servizio sarebbe stato gestito da un ente strumentale dell’ente locale, che avrebbe permesso la stabilizzazione immediata di tutti senza il superamento di prove concorsuali. La grande mobilitazione che ne scaturì fece fare un balzo in avanti al comitato romano AEC. Le riunioni, inizialmente frequentate da pochi, iniziarono a essere attraversate da sempre più persone, anche più di trenta ogni volta.
Il nostro gruppo partecipò a diversi eventi pubblici in cui era possibile dare visibilità alla causa e chiedere ai cittadini di apporre una firma per sostenere questa delibera. Il risultato di tanto lavoro fu davvero incredibile. Per presentare la delibera in consiglio comunale erano necessarie cinquemila firme, ma si arrivò a quota dodicimila, dimostrando come attraverso le reti di solidarietà si possano raggiungere obiettivi ambiziosi. Il 12 dicembre 2019 decidemmo un grande sciopero. Per la prima volta migliaia di AEC assediarono piazza del Campidoglio: le scalinate di fronte all’entrata dell’assemblea capitolina erano gremite di persone, gli ombrelli rossi e gli striscioni che reclamavano l’internalizzazione del servizio provavano a dare colore a una giornata piovosa. Quel giorno in migliaia disertarono le scuole sfidando il potere ricattatorio delle cooperative per dire no al sistema delle esternalizzazioni e degli appalti.
Il 2020 però si aprì con il dilagare di un’ondata pandemica che ha cambiato irreversibilmente le nostre abitudini ma anche il nostro lavoro. A inizio marzo il governo stabilisce la chiusura delle scuole in tutto il paese e qualche giorno dopo approva il decreto Cura Italia: all’art.48 comma 2, si autorizzano le pubbliche amministrazioni a pagare le cooperative sociali durante la sospensione dei servizi educativi, scolastici e socio-assistenziali, sulla base di quanto iscritto nel bilancio preventivo.
Il comune di Roma non procede al pagamento delle tariffe alle cooperative e decide prima la conversione dei servizi scolastici in domiciliari e successivamente ritira tale provvedimento a causa del crescente aumento dei contagi. Le cronache di quei giorni raccontano del clamoroso errore commesso da un’ordinanza regionale della Lombardia, che stabilisce irresponsabilmente, in mancanza di posti letto negli ospedali, di trasferire i pazienti a bassa intensità assistenziale di Covid nelle Residenze sanitarie che ospitano persone anziane non autosufficienti (Rsa). Come denunciato da un infermiere, “fu come collocare un cerino dentro un pagliaio”.
Una situazione analoga si sarebbe potuta creare con la conversione dei servizi di assistenza scolastica in domiciliari, vista la fragilità della nostra utenza e il crescente numero dei contagi che avveniva in quel periodo. In mancanza di un provvedimento unitario del comune di Roma, i lavoratori delle cooperative sociali vengono abbandonati al proprio destino: alcuni percepiscono l’anticipo del Fondo integrazione salariale dalla cooperativa, altri che operano in contesti più piccoli percepiscono una busta paga di cento-duecento euro e sono costretti ad aspettare diversi mesi il versamento dell’Inps. Altri ancora sono obbligati a indebitarsi attraverso prestiti che dovranno restituire alle cooperative. L’ondata pandemica non si arresta. A settembre, con l’apertura delle scuole, il rischio del contagio fa lievitare i costi delle cooperative. I lavoratori entrano nelle scuole senza aver fatto alcun controllo sanitario e le cooperative sono restìe a fornire mascherine adeguate al personale, costretto a lavorare per più di sei ore al giorno con dispositivi di sicurezza insufficienti. Come comitato romano AEC proviamo a non disperdere le risorse, così faticosamente costruite. Si avvicina, infatti, la votazione della delibera popolare.
Il 16 ottobre 2020 viene finalmente calendarizzata la delibera e la risposta di colleghi e colleghe, nonostante l’emergenza sanitaria, è altrettanto importante: circa un centinaio di persone partecipano al presidio. Nel dibattimento, però, appare chiara la volontà politica dell’amministrazione capitolina: da un lato il Pd che elogia il sistema di accreditamento e le forme di collaborazione pubblico-privato come strumento in grado di preservare la qualità del servizio; dall’altro il M5S, che a inizio legislatura sosteneva l’internalizzazione, ora prende le distanze affermando la necessità di un concorso indetto dal ministero dell’istruzione. La votazione sfocia in una grande sconfitta, solo dodici voti favorevoli e una ventina di astenuti mostrano tutte le crepe di questa gestione: le forme di partnership pubblico-privata rappresentano un elemento essenziale del sistema che spreme le risorse pubbliche e muove molti voti.
A questo punto la nostra storia si intreccia con una cooperativa, una scuola e tante lavoratrici e lavoratori che finalmente decidono di alzare la testa. La vicenda comincia a fine novembre, quando la cooperativa “Roma 81 Prevenzione e Intervento”, invia una email in cui avvisa tutti i dipendenti che non verranno retribuite le ore non lavorate corrispondenti al mese di ottobre. La cooperativa giustifica la decisione affermando che il crescente numero dei contagi ha prodotto un numero ingente di ore contrattualizzate ma non prestate. Per far fronte a questa situazione decidono di pagare le ore non lavorate (malattia, maternità, ferie) attraverso il Fondo integrazione salariale, l’ex cassa integrazione, in barba al contratto nazionale collettivo che obbliga le cooperative sociali a pagare queste ore non lavorate.
Le lavoratrici e i lavoratori che aspettavano con ansia il salario di ottobre, il loro primo stipendio intero, decidono prima di fare un presidio sotto la cooperativa Roma 81, e poi denunciare le irregolarità davanti al Municipio. Qualche giorno dopo viene convocata un’assemblea sindacale per chiedere all’assessora alle politiche sociali del VII Municipio, Cristina Leo, spiegazioni in merito alle irregolarità delle buste paga ricevute da Roma 81 e al mancato espletamento delle visite mediche e dei tamponi che secondo un’ordinanza regionale andrebbero effettuati dalle cooperative sociali ogni quindici giorni.
Qualche giorno dopo l’assessora invia una mail alla cooperativa per chiedere conto delle denunce presentate. La mattina del 3 dicembre, subito dopo l’assemblea sindacale davanti al VII Municipio, tre lavoratrici tornano nel loro plesso per riprendere servizio, nella scuola primaria Centroni, succursale dell’istituto Rodari, ma vengono respinte all’ingresso. La scuola giustifica questa decisione affermando di non avere ricevuto comunicazione dell’assemblea, malgrado l’invio tramite Pec delle lavoratrici al proprio datore di lavoro, la cooperativa. Per questo motivo la dirigente scolastica ordina al personale della portineria di non fare entrare le lavoratrici. Nello stesso tempo, minaccia le colleghe, affermando che la partecipazione all’assemblea verrà inserita come assenza ingiustificata. La cooperativa Roma 81 qualche giorno dopo invia una email alle operatrici chiedendo di non presentarsi sul posto di lavoro su disposizione della dirigente scolastica, mettendole in ferie forzate.
Questo incidente – fortunatamente risolto qualche settimana dopo grazie alla mobilitazione dei colleghi e al sostegno di altre realtà (Coordinamento regionale sanità[1], student* Osa[2], Comunità educante di Centocelle[3], Collettivo Ninanda[4]) impegnate da anni in altre vertenze scolastiche e socio-sanitarie – mostra da un lato l’indiscriminato potere di una dirigente scolastica che ogni giorno travalicava il proprio ruolo, costringendo le lavoratrici a porre una firma in un registro che si è poi rivelato irregolare; ma anche la necessità di far convergere le mobilitazioni che riguardano i diritti essenziali – scuola, sanità, servizi sociali –, ambiti che non vanno sovrapposti bensì “integrati”, immaginando servizi pubblici che non siano legati al profitto.
In Italia è sempre più alto il numero di attori privati che erogano servizi nel mondo della scuola, della sanità e dei servizi sociali assumendo lavoratori con condizioni e salari ai limiti dello sfruttamento. La corsa al ribasso sul costo del lavoro sta riducendo i diritti di chi lavora e la quantità e qualità dei servizi offerti. In questo scenario, le battaglie politiche contro il precariato e in favore della internalizzazione dei servizi pubblici, rappresentano un punto di partenza imprescindibile per la costruzione di una “società della cura” che si contrappone a una società fondata sull’esclusione. (giuseppe mammana)
[1] Coordinamento lavoratrici e lavoratori del Policlinico e dello Spallanzani.
[2] Studenti medi del territorio romano.
[3] Collettivo che unisce una serie di professionalità della scuola: docenti, genitori, AEC.
[4] Studenti, genitori, insegnanti contro l’Invalsi, l’alternanza scuola-lavoro e la Didattica a Distanza.
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