Giovedì scorso, il 5 luglio, a Roma la polizia di stato ha sfrattato oltre cento abitanti di uno stabile in una desolata area industriale della periferia est, a ridosso del Grande Raccordo Anulare. La stretta strada su cui affaccia il palazzetto, via di Scorticabove, si snoda tra capannoni, piccole fabbriche e autoriparazioni, in un triangolo intorno a via Tiburtina schiacciato tra le case popolari di San Basilio e il fiume Aniene. Da due furgoni di polizia sono scesi gli agenti che hanno aperto la porta con un piede di porco; gli abitanti del palazzetto hanno raccolto le loro cose e sono usciti in strada, alla spicciolata. Poi sono rimasti in attesa per ore tra le fabbriche, sotto il sole, circondati da trolley e valige.
Hotel Africa e dintorni
«Salvini majnoun», dice un giovane con la barba, appena sfrattato, appoggiato a una macchina. Capisco qualcosa delle conversazioni in arabo tra loro, nelle quali ogni tanto emergono parole come “sgombero”, “questura” e “cooperativa”; quando li intervistano i giornalisti, tirano fuori un italiano eccellente. Salvini è pazzo, dice quello con la barba, usando la parola araba che vuol dire posseduto, abitato da un jinn, da uno spirito. «Noi abbiamo tutti i documenti in regola – continua in italiano –, mica ci può sparare!». La sua voce si somma al coro d’indignazione contro il nuovo ministro dell’interno, al quale aderiscono anche tanti sostenitori del governo precedente. Ma il percorso che ha portato allo sfratto di queste cento persone parte da molto prima, è una sequenza di eventi che dura da quindici anni, in cui si alternano momenti di “accoglienza” (inserimento in centri) e momenti di “respingimento” (sfratti), che insieme configurano la negazione di diritti fondamentali, primo tra tutti quello alla casa. Concentrarci sul poliziotto cattivo, pazzo, majnoun, non fa altro che nascondere le responsabilità di quello buono, sano di mente e “accogliente”.
La maggior parte degli sfrattati viene dal cosiddetto Hotel Africa, un’occupazione di quindici anni fa in un magazzino delle Ferrovie dello Stato. Lo spazio in cui per mesi avevano vissuto centinaia di richiedenti asilo eritrei e sudanesi, sostenuti da volontari e attivisti italiani, doveva essere liberato per aprire il cantiere della nuova stazione Tiburtina: un’opera da trecentoventi milioni che doveva trasformare Tiburtina nella prima stazione di Roma, e soprattutto adeguarla all’Alta Velocità. Fu inaugurata nel 2011 dal sindaco Alemanno, dal governatore Zingaretti e dal capo dello stato Napolitano. Il progetto prevedeva anche l’interramento della tangenziale est, e l’apertura di un passaggio tra i due quartieri di Pietralata e Nomentano. Oggi i due quartieri sono più divisi che mai, la tangenziale è ancora lì per aria, la maxi-stazione è per lo più vuota, ma i rifugiati già nel 2004 furono sgomberati e mandati in centri d’accoglienza sparsi per Roma (si veda anche qui).
L’operazione fu gestita dal capo gabinetto del sindaco Veltroni, Luca Odevaine, che naturalmente li affidò alle due cooperative da cui prendeva migliaia di euro al mese in tangenti: lo rivelò undici anni dopo l’inchiesta Mondo di mezzo, ovvero Mafia Capitale. Gli eritrei furono mandati in via Cupa, non lontano dalla stazione, in un centro gestito dalla Eriches 29 giugno, la cooperativa del cervello di Mafia Capitale, Salvatore Buzzi. I sudanesi invece vennero affidati a La Cascina Global Service, cooperativa di Comunione e Liberazione, una struttura tentacolare che aveva appalti milionari con il Comune per attività nelle scuole, mense universitarie, centri di accoglienza, centri giovanili. La Cascina prendeva circa mille e cinquecento euro al giorno per gestire i migranti, alloggiandoli nella palazzina di via Scorticabove che il Comune stesso aveva preso in affitto da un privato.
I cento e più sudanesi – tutti rifugiati del Darfur, con regolare asilo politico – rimasero nel centro d’accoglienza per un decennio, contestando continuamente la gestione della cooperativa e denunciando il rapporto clientelare con il Comune, l’opacità dell’appalto, gli altissimi profitti contro i pessimi servizi. Si erano consolidati come collettivo durante l’occupazione dell’Hotel Africa e durante gli anni passati come “ospiti” della cooperativa La Cascina riuscirono a negoziare un certo grado di autonomia – all’inizio c’erano orari ferrei per entrare e uscire, e non si poteva neanche rimanere dentro durante il giorno. Il Comune però prendeva sempre le parti della cooperativa, che poi fu dichiarata mafiosa; fino all’estremo che, quando nel 2014 l’inchiesta Mafia Capitale portò all’arresto sia di Odevaine che dei vertici de La Cascina (Francesco Ferrara, Domenico Cammissa, Salvatore Menolascina, Carmelo Parabita), il nuovo sindaco Marino prorogò comunque l’appalto.
Nel 2016, come conseguenza del commissariamento delle cooperative, entrambi i centri chiusero i battenti. In quello di via Cupa, gli ex operatori della Eriches 29 giugno iniziarono ad autogestire lo spazio insieme agli eritrei, grazie agli aiuti alimentari e di altro genere che arrivarono da vicini e da altri cittadini solidali. L’ex centro di accoglienza divenne il progetto Baobab, tuttora attivo a Roma nonostante i continui sgomberi. Anche i sudanesi decisero di rimanere nonostante la chiusura della cooperativa, e presero in mano la gestione dello stabile trasformando il centro d’accoglienza in un vero centro culturale, legato a diverse strutture politiche della zona – come il sindacato USB, o l’occupazione dei Blocchi Precari Metropolitani al civico 1099 della Tiburtina. A differenza di chi rimane bloccato nel circuito dell’accoglienza, gli abitanti di via Scorticabove, grazie all’autogestione, riuscirono a costruire percorsi di integrazione e indipendenza economica, e oggi quasi tutti lavorano nei settori più diversi, molti nelle campagne. Ma al ritiro della cooperativa il Comune smise di pagare affitto e utenze, finché il proprietario richiese lo sfratto.
La guerra ai poveri
Quando la notifica è arrivata in Comune, giorni fa, nessuno si è preoccupato di avvisare gli abitanti, che hanno dovuto lasciare senza preavviso la casa in cui avevano abitato per un decennio. Ci sembra naturale pensare che le istituzioni diano ragione al padrone di casa, anziché tutelare questi abitanti “abusivi”. Ma non dimentichiamo che il proprietario della palazzina sin dal 2003 aveva tratto beneficio dal sistema corruttivo di Mafia Capitale, mentre gli abitanti che autogestivano lo spazio di fatto avevano restituito alla collettività un bene sfruttato da una rete criminale. Come spesso accade, questa vicenda non va valutata a partire da considerazioni umanitarie, dagli appelli all’accoglienza e alla fratellanza con i migranti, bensì rispetto al diritto alla casa e all’abitare. La questione non è il razzismo di Salvini e la sua “follia”: il ministro majnoun non fa altro che portare avanti in modo più sfacciato le stesse politiche impopolari dei suoi predecessori “democratici”. Il nodo centrale è che il sistema politico vigente fa della guerra ai poveri il cardine della propria azione di governo – è questo il jinn da esorcizzare.
Quando la sera gli emissari del Comune sono arrivati in via di Scorticabove per proporre agli sfrattati di trasferirsi nei soliti centri per l’emergenza abitativa, questi hanno rifiutato in blocco. I centri, detti anche “residence”, sono la soluzione d’emergenza di sempre, quella che ogni amministrazione (Marino, Raggi) afferma di voler superare per poi continuare ad alimentarla. Uno dei centri proposti si trova a Boccea, dalla parte opposta della città; si tratta probabilmente di quello di Val Cannuta, gestito dallo speculatore Pulcini e dalla cooperativa 29 giugno di Salvatore Buzzi, se non il Centro Enea gestito dall’Arciconfraternita, il cui direttore è lo stesso de La Cascina Global Service. Insomma, le istituzioni cercano di riportare nelle mani di Mafia Capitale chi era faticosamente riuscito a uscirne. C’è poco da indignarsi per il razzismo o la barbarie di Salvini, queste sono politiche permanenti di governo della povertà.
Gli sfrattati hanno preferito rifiutare l’offerta e sono rimasti tutti insieme su via Scorticabove, imbastendo un accampamento in strada con i materassi sotto le tende. Il sindacato USB appoggia la loro protesta, così come numerosi vicini e attivisti della zona (in barba al dogma secondo cui le periferie romane sono luoghi di odio e violenza etnica). Sabato un gruppo è andato a manifestare davanti alla sede dell’UNHCR, l’ente che dovrebbe proteggerli in quanto rifugiati, ma che finge di non vedere come vengono impiegati i fondi che dispensa. Domenica invece hanno incontrato il vicesindaco, attualmente al centro di uno scandalo legato a un altro spazio occupato, il Metropoliz.
La via Tiburtina sembra essere un luogo privilegiato per questo tipo di situazioni: l’estate scorsa anche gli eritrei sfrattati dal Baobab di via Cupa si erano ritrovati a dormire per strada per oltre un mese; l’accampamento dei sudanesi è sulla stessa strada consolare, però molti km più in là, dove il Grande Raccordo segna la fine della città. E la coincidenza ha a che vedere con una grande opera, la stazione ferroviaria. Sono passati quindici anni dall’apertura del cantiere di stazione Tiburtina, le centinaia di persone sfrattate per aprire la TAV a Roma sono ancora in mezzo alla strada. (stefano portelli)
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