da: Volerelaluna
Settantaquattro anni. Prendo spavento a pensare che c’ero, anzi, che me lo ricordo quel 1 maggio del 1945. E che i testimoni di quegli avvenimenti non sono rimasti tanti. Non dico in generale, dico quelli che hanno visto ciò che ho visto io, a Trieste, in una casa da dove si vedeva la sagoma del Castello, ultima roccaforte della resistenza tedesca all’avanzata dell’esercito di liberazione jugoslavo. I maschi della mia famiglia, tranne mio padre, erano tutti sotto le armi. Mio nonno era prigioniero in Africa, ad Asmara, ma non se la passava male, mi raccontò qualche anno dopo. Ci era andato volontario nel ‘36 con le truppe italiane. S’era arruolato per ottenere l’amnistia, aveva una condanna per diserzione. Allora abbandonare una nave commerciale era considerato diserzione, come fosse una nave militare. Lui, elettricista di bordo, toccato un porto degli Stati Uniti, se l’era svignata per inseguire il sogno americano. Aveva sbagliato data, era il 1929. A Trieste s’era lasciato alle spalle una moglie e quattro figli: mia madre, la prima, una donna sensibile, bella, sportiva, s’era ammalata di tubercolosi a quindici anni e avrebbe passato la vita tra sanatori e ospedali. Poi tre figli maschi, uno alto, ben piantato, calciatore semiprofessionista, arruolato nei granatieri, era prigioniero in Germania, “internato militare”, per la precisione, preso dai tedeschi l’8 settembre ad Atene e ficcato in un vagone piombato. Un altro più giovane, Giorgio, dolce e tenero ragazzo, era caduto a ventun’anni a El Ghennadi in Tunisia, pochi giorni prima della resa delle truppe italiane, nel maggio del ‘42. L’ultimo, di cui non ricordo il nome, era morto di meningite a quattro anni.
Non so qual è stato il tributo di sangue che i partigiani di Tito hanno versato per conquistare Trieste prima che ci mettessero su le mani gli Alleati. Ma qualche fonte parla di migliaia di caduti sul Carso. Me li ricordo ancora, gli elmi nei boschi. Erano elmi tedeschi, molti foderati di pelle, li raccoglievo e me li ficcavo in testa, subito redarguito da mio padre, potevano averci i pidocchi. I partigiani portavano bustine, copricapi di stoffa, erano un po’ scalcagnati. Le SS, invece, com’erano tirate a lucido, P38 alla cintola, stivali senza una goccia di fango! Ma in quei giorni le ho viste tentare azioni disperate per salvare la pelle. Trieste non era più Italia, era Adriatisches Küstenland, di fatto incorporata nel Reich. Avevamo un Gauleiter, noi, il prefetto italiano contava ben poco. E anche un forno crematorio, sistemato in un’antica pilatura di riso. Il nostro è un cognome ebreo, Bologna, ma non eravamo ebrei, la famiglia di mio padre era genovese. Una famiglia numerosa, otto tra fratelli e sorelle. In quel forno crematorio ci finirono ebrei ma soprattutto antifascisti sloveni, croati, serbi, macedoni e italiani. Fu una vera guerra civile quella combattuta dall’esercito di liberazione jugoslavo. Una guerra spietata, feroce, con orrori commessi da ambo le parti, ma cominciata dai fascisti e proseguita dai nazisti e dai loro alleati ucraini, ungheresi, croati (gli ustascia), sloveni (i domobranci). Anche lo squadrismo fascista aveva avuto il suo battesimo a Trieste con l’incendio del Narodni Dom, la casa del popolo della comunità slovena, luglio 1920.
Maggio 1945, la resa dei conti. L’Italia del nord era in parte liberata il 26 aprile, a Trieste l’insurrezione comincia il 29 aprile, senza i comunisti, la maggioranza s’era arruolata con Tito e non sempre se l’era vista bene. Il comandante militare dell’insurrezione – cui parteciparono anche repubblichini che avevano cambiato casacca all’ultima ora – era un colonnello dell’esercito regio. Perse tre figli maschi sulle barricate, nello stesso giorno. Questo era il quadro, quando, nella notte del 30 aprile, le truppe partigiane sfondano le ultime resistenze tedesche ed entrano in città, avanzando su due direttrici, una che portava al Tribunale, sede del comando tedesco, e una che portava al Castello di San Giusto, sede di una guarnigione ben difesa. La nostra casa stava ai margini estremi del quartiere di San Giacomo, il quartiere degli operai dei cantieri, il quartiere “rosso” per eccellenza. Per prendere il Castello i partigiani dovevano passarci davanti. A due passi dalla nostra abitazione – si sarebbe saputo dopo – c’era la sede clandestina del Primorski Dnevnik. Ma la mia non era una famiglia “rossa”, era mezza nera e mezza tricolore. Mio padre era fascista, perché lo fosse diventato fa parte di quegli enigmi che spiegano il disorientamento di un popolo, lui che era stato massone, chissà perché, lui dal quale ho imparato il rispetto e l’amore per il lavoro, il rispetto per la donna – assistette mia madre tutta la vita con un’abnegazione certe volte disumana, sostituendola per anni nei lavori domestici – lui che non ha mai alzato le mani su di me, che non mi ha mai impedito di fare qualunque cosa, lui che ha lavorato tutta la vita nei cantieri navali come tecnico progettista senza chiedere aumenti di stipendio perché non gli pareva dignitoso. Quest’uomo buono e mite, dal carattere introverso, tenace e ostinato come i liguri sanno essere, di un’onestà maniacale, che da ragazzo aveva patito letteralmente la fame, era irrimediabilmente fascista. Perché? Nel maggio del ‘45 in quelle circostanze, in quella città, in quel quartiere, poteva finire in una foiba. Se l’avessero ammazzato, come avremmo fatto a vivere, mia madre e io? Lei che faceva fatica a fare le scale di casa. Eravamo assuefatti al terrore, il bombardamento del 10 giugno ‘44 aveva fatto una strage nel nostro quartiere, 463 morti, quattromila case distrutte o danneggiate. Quindici giorni dopo avrei fatto da privatista l’esame di ammissione alla terza elementare.
È difficile descrivere il terrore dei bombardamenti, la sensazione di essere una formica che può venire schiacciata per caso, la galleria Sandrinelli, rifugio sicuro ma lontano, stipata di gente con masserizie, valigie, fagotti. Il 1 maggio ‘45 ascoltavamo la radio dire che la guerra era finita ma sotto le nostre finestre si combatteva ancora, di notte le pallottole traccianti, duelli di cecchini sui tetti, erano uno spettacolo quasi eccitante per un ragazzino di otto anni. Assistemmo alle ultime sparatorie dal balcone di casa nostra al quarto piano. I tedeschi, asserragliati nel Castello, si arresero soltanto all’arrivo delle truppe alleate, di neozelandesi. Accettarono la mediazione del vescovo, tirarono per le lunghe la trattativa, i partigiani, che avevano in pugno la città, che l’avevano liberata, rimasero con un pugno di mosche in mano. Restarono ancora per quaranta giorni, inscenando cortei e manifestazioni di annessione alla nuova repubblica jugoslava, ma la diplomazia internazionale convinse Tito a ritirarsi, dovette accontentarsi dell’Istria e della Dalmazia. I caduti dell’assalto a Trieste erano morti invano.
Per fortuna mio padre non era stato un fascista in vista, con cariche, responsabilità, lo era stato come tanti poveri diavoli. Ricevette minacce di morte, ma non da chissà quale giustizia partigiana, da un ragazzo, un vicino di casa, avrà avuto diciassette anni, figlio di una famiglia slovena dello stabile accanto. Fu mia madre a sistemare la cosa con una telefonata. Chi afferma che le foibe nulla hanno a che fare con la guerra nazifascista ma sono state il risultato di puro odio etnico, non sa quello che dice. Per quanto accesa nazionalista fosse stata mia madre, la condizione economica in cui era cresciuta l’aveva portata a condividere l’esistenza del proletariato sloveno, in sanatorio aveva acquistato familiarità con quell’ambiente. Mio padre non fu toccato ma venne epurato dal cantiere e rimase per quattordici mesi fuori, prima di essere reintegrato, dopo un processo sommario in cui il suo accusatore ritrattò le sue dichiarazioni iniziali. Di che cosa era incolpato? Di aver accusato i suoi colleghi di “disfattismo” nel corso di un’animata discussione dopo la battaglia di Punta Stilo. Risulta dai verbali, conservati all’Archivio di Stato di Trieste.
Sono stati anni veramente duri, vissuti in un territorio dove le cose difficili sono ancora più difficili, in una famiglia che oscillava tra la condizione sottoproletaria e quella di piccola borghesia. Quando mio zio tornò sano e salvo dalla prigionia, visse fino alla fine degli anni Cinquanta assieme alla sua compagna e a mia nonna in una casa a Montebello, di fronte all’ippodromo, senza servizi. Lì avrebbe abitato anche mio nonno, tornato dall’Africa nel ‘53, per qualche anno prima di andarsene. Dell’altro mio zio si sapeva soltanto che era “disperso”. Il dolore per la sua morte era reso ancora più acuto dal tormento di pensarlo senza sepoltura. Solo sessantasei anni dopo, quando tutti i membri della mia famiglia triestina erano scomparsi, venni a sapere che i suoi resti erano conservati nell’Ossario dei Caduti d’Oltremare di Bari.
La luce di quella primavera/estate del ‘45 mi è conficcata ancora oggi nel ricordo come la più luminosa di tutte le primavere successive. Ricordo la felicità di poter uscire di casa senza timori. Avevo voglia soprattutto di giocare perché noi, nati alla fine degli anni Trenta, non avevamo avuto tempo di essere bambini. Appena acquisita la coscienza di esistere, ci eravamo trovati in mezzo a una guerra mondiale. Si potrebbe pensare che a guerra finita avessimo bisogno soprattutto di dimenticare, di rimuovere il passato, ma era difficile togliersi il ronzio dei motori delle fortezze volanti dalle orecchie. Penso di aver scelto la storia come disciplina di studio perché volevo rendermi conto delle contraddizioni in mezzo alle quali avevo vissuto, volevo capire perché mio padre era diventato fascista, perché lo era diventata la maggioranza del popolo italiano, volevo capire perché aveva vinto il nazismo in Germania, perché gli operai dei cantieri erano diventati comunisti, perché tra italiani e slavi c’era stato tanto odio nelle nostre regioni, perché Tito era riuscito a mettere in piedi un esercito barcamenandosi tra Churchill e Stalin, perché, perché… Trieste è un grumo talvolta inestricabile di contraddizioni e di incroci di culture, società, memorie, di rancori, nostalgie, stupidità. Volevo capire l’esistenza sottoproletaria di mia nonna, quella piccolo borghese della nostra famiglia monoreddito, quella roba lì che la sociologia chiama “la mobilità sociale” come funziona? Volevo capire me stesso, trovare una ratio in quel che mi stava attorno perché mi era apparso tutto, tutto, dal primo momento in cui avevo cominciato a ragionare – come una tragica follia.
Non riesco a immaginare come si possa fare storia con una mentalità accademica, per fare un concorso, per avere titoli. Forse per me è stato solo un modo per uscire da un trauma, un modo, poco ortodosso, per aiutarmi a sopravvivere. Poi c’è la questione del comunismo. L’ho studiato, con passione, ma direttamente l’ho conosciuto sotto le vesti di qualcosa che poteva voler uccidere mio padre. Potevo capire le sue ragioni, ma è un’altra cosa che farne parte. Ho visto i comunisti ammazzarsi tra di loro, quelli jugoslavi far fuori quelli italiani che sulla questione di Trieste volevano che decidesse un referendum. Quando Tito è uscito dal Cominform quelli stalinisti voler ammazzare quelli titini. Gli operai dei cantieri di Monfalcone, entusiasti di costruire il socialismo in Jugoslavia, mandati nel gulag di Goli Otok perché s’erano schierati con Stalin. Per questo ho visto nell’operaismo una prospettiva post-comunista, non ho mai condiviso l’atteggiamento di tanti compagni che si consideravano, in quanto operaisti, i “veri” comunisti. Io volevo la liberazione dal regime capitalista e dal regime comunista, volevo entrare in una nuova era, che poi sarebbe stata del post-fordismo e lì trovare nuove, originali forme di emancipazione, di liberazione, inventate da noi, non riprese pappagallescamente dalle formule della Terza Internazionale. Pertanto il mio operaismo doveva essere intriso di elementi anarchici, libertari, consiliaristi, non leninisti. Preferivo il libero pensiero, diffidavo del dogma. Mi sentivo più vicino alla spiritualità cristiana che all’ottuso settarismo politico. Dopo settantaquattro anni, penso che sia andata così, penso che per quelli della mia generazione, sulle spalle dei quali, ancora bambini, la storia s’era abbattuta come una valanga, non ci fosse altra via d’uscita. (sergio bologna)
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