«Dopo tre settimane, troviamo solo resti… abbiamo trovato tanti corpi in mare! Da lontano, si vede uno stormo di uccelli bianchi come se formassero un cerchio; al centro, un corpo gonfio e una macchia come di olio tutt’intorno. E già da lontano si sente un odore insopportabile», racconta Oussine, pescatore e membro dell’associazione dei pescatori di Zarzis. È invece un corpo quasi intatto quello che viene ritrovato domenica 16 ottobre (venticinque giorni dopo la scomparsa della barca) su una spiaggia di Zarzis. È il corpo di uno dei dispersi: Aymen Mcherek. Quasi inodore, è stato trovato con la camicia ancora attaccata alla testa. Da qui il sospetto che non fosse arrivato dal mare ma da una cella frigorifera. Nella speranza di risolvere questo dubbio, il giorno successivo otto pescherecci sono usciti in mare per un’altra operazione di ricerca. Ma senza successo. Nell’ultimo mese, l’associazione dei pescatori è stata la spalla a cui le famiglie si sono aggrappate per evitare il baratro della disperazione. È su queste spalle che Abd al-Salam al-Aoudi, padre di Ryan (un quindicenne ancora disperso) ha aperto l’interminabile corteo di martedì 18 ottobre, trasformando il suo incubo in un grido di rivendicazione: «La gente vuole i figli/le figlie scomparse!».
L’emozione di Abd al-Salam è stata al centro anche dell’incontro con i sindacati Ugtt, Utica e Utap che precedeva la giornata di sciopero del 18. Mentre l’associazione dei pescatori, le famiglie e i militanti della città volevano indire uno sciopero generale, i sindacati avevano chiesto più tempo per organizzarlo. Di fronte a questa impasse, Abd al-Salam si alza e strilla, con una rabbia che rasenta la disperazione: «Lei è il mio presidente, deve aiutarmi a trovare mio figlio, deve aiutarmi a trovare mio figlio!». Il dito è puntato contro Chamseddine Bourassine. Poco dopo l’incontro si scioglie senza alcuna promessa da parte dei sindacati, che il giorno dopo proclameranno lo sciopero generale per martedì 18 ottobre.
Chamseddine Bourassine, presidente dell’associazione dei pescatori di Zarzis, è il perno politico delle proteste di Zarzis. È infatti intorno a lui che si sono moltiplicate le assemblee aperte presso il locale dei pescatori sulla strada per Ben Gardane, i comunicati stampa e gli interventi nelle strade e nelle riunioni spontanee. Ed è attraverso queste mobilitazioni che è emersa gradualmente una certa postura collettiva di fronte alle istituzioni statali, dove la rabbia e la disperazione da sole non sarebbero bastate. Nel suo discorso in occasione dello sciopero del 18 ottobre, ha dichiarato: «Il motivo per cui siamo qui oggi è che nessuna autorità in Tunisia è stata disposta a raccogliere la nostra causa. […] Abbiamo scoperto che le dichiarazioni comunali non corrispondono alle tombe che si trovano nel cimitero degli Sconosciuti. Abbiamo trovato permessi di sepoltura che non corrispondono alle tombe nel cimitero. Nessuno dei funzionari ci ha detto la verità».
Nelle ultime settimane, nessun ente statale si è espresso pubblicamente: gli ospedali, gli obitori, il cimitero, il comune di Zarzis, il procuratore. È solo grazie all’incessante persistenza delle famiglie e degli attivisti che sono stati strappati gli elementi che hanno sviluppato la ricerca. Domenica 16 ottobre, dopo il riconoscimento dei tre corpi sepolti al Jardin d’Afrique e i funerali di quattro persone, la pressione di famiglie e attivisti ha permesso di aprire i registri dell’ospedale e di scoprire che, durante la scorsa settimana, alcuni corpi erano stati lasciati in ospedale senza un test del Dna e senza una destinazione ufficiale. Il giorno successivo, mentre intendeva presentare una richiesta ufficiale per sapere quanti corpi fossero in attesa del test del Dna all’ospedale di Gabes, Ali Kniss, ricercatore e cittadino di Zarzis, è stato bruscamente espulso dal tribunale di Medenine perché indossava dei pantaloncini e Abd al-Salam al-Aoudi, padre di un ragazzo scomparso, è stato placcato a terra e maltrattato.
L’obiettivo primario delle mobilitazioni di Zarzis è la verità e la ricerca degli scomparsi. Altre motivazioni psicologiche, sociali, politiche ed economiche contribuiscono ovviamente alla più ampia mobilitazione della città e della regione. Ma è importante non confondere l’obiettivo con le motivazioni; il movimento di Zarzis “non chiede cibo o bevande”, secondo il presidente dell’associazione dei pescatori. Mobilitarsi in Tunisia in questo momento significa doversi difendere dall’accusa di voler destabilizzare il presidente. La protesta è vista e attaccata come un “cavallo di Troia” di forze che tramano nell’ombra. Vi sono state proteste e scontri nel quartiere di Ettadhamen, a Tunisi, dopo la morte di un giovane di ventiquattro anni per mano della polizia il 14 ottobre scorso; una manifestazione in avenue Bourghiba il 15 ottobre, lo sciopero dei trasporti pubblici il 21 ottobre, lo sciopero dei forni il 19 ottobre. In tale contesto, le parole di Bourassine non lasciano equivoci: «Tenete le vostre sedie e i vostri posti, ma lasciate a noi le nostre cause. Non siamo con le persone che vogliono governare. Né con coloro che hanno agende con gli stranieri […]. Non siamo contro i rappresentanti dello Stato, come dice il presidente del paese, eravamo con lo Stato fin dall’inizio per mantenere la calma. Ma siete voi che ci costringete ad andare per strada, voi ci avete fatto del male […], siamo coinvolti nella migrazione grazie a voi, grazie al vostro modo di affrontare i problemi, ci vedrete sempre pronti a parteciparvi».
La perseveranza di famiglie e attivisti ha riportato il Jardin d’Afrique al centro del dibattito. Dopo diversi incontri con il custode si è arrivati a sapere, per esempio, che ben tre corpi sono stati sepolti nella tomba di una bambina. Il custode è stato arrestato la sera del 19 ottobre e il caso è ora nelle mani del tribunale di Medenine: il Jardin d’Afrique è sotto sequestro e ventotto tombe saranno aperte nei prossimi giorni. Nonostante le mobilitazioni, a nessun rappresentante delle famiglie o della società civile è stato permesso di assistere alle operazioni all’interno del cimitero.
Il Jardin d’Afrique non è un cimitero come gli altri. È un progetto gestito da un’associazione con sede in Francia e la sua funzione è quella di seppellire i corpi di ignoti trovati in mare. Questo progetto è idea dell’artista Rachid Khoraichi, che durante un soggiorno a Zarzis è rimasto sconvolto dalla “quantità di morti in mare e dal modo in cui venivano seppelliti”. Con l’aiuto di fondi privati, il sostegno dell’Unesco e del municipio di Zarzis, e la partecipazione del medico Mongi Slim (proprietario di diversi edifici e ville), Khoraichi ha potuto creare il Jardin d’Afrique nel 2018. Tuttavia, molto tempo prima, l’attivista Chamseddine Marzoug, aveva iniziato già nel 2012 a impegnarsi nella realizzazione di un cimitero degli sconosciuti proprio per facilitare l’identificazione di un corpo in caso di ricerca. «Non sono stato invitato a partecipare al progetto del Jardin d’Afrique, anzi, dopo un periodo di volontariato, ho ricevuto tre documenti da avvocati di Parigi che mi chiedevano di non entrare nel sito e di starne lontano», racconta Marzoug. Se la sua esclusione mette in discussione la volontà di rendere il Jardin d’Afrique un progetto partecipato dagli attivisti di Zarzis, con lo scandalo degli ultimi giorni è la stessa vocazione umanitaria a implodere. Il Jardin d’Afrique non solo non è una soluzione al trattamento indegno dei corpi ritrovati in mare, ma sembra addirittura contribuirvi. Si ritrova a essere un ingranaggio nella macchina della quale pretendeva essere un’alternativa.
Il prelievo del Dna prima di qualsiasi sepoltura è un requisito non negoziabile dato il contesto di Zarzis e della sua regione. Ma il problema non sta solo nel cattivo funzionamento del cimitero del Jardin d’Afrique, ma nella sua stessa esistenza. L’origine del problema sta negli accordi di frontiera e nel blocco della migrazione delle persone.
Karim ha perso Mouna Aouida e Sachda Nasr nella notte del 21 settembre. La figlia di un anno e due mesi non è stata ancora ritrovata. Nel corridoio di voci che si sono diffuse, c’è quella secondo cui Karim, che vive e lavora in Italia, avrebbe fatto non meno di otto (o tre, a seconda delle versioni) richieste di ricongiungimento familiare. Durante una conversazione in occasione di un sit-in organizzato da lui stesso, abbiamo potuto parlare di questo argomento. A volte assente, sempre animato da una fredda rabbia, risponde: «Non ho fatto nessuna richiesta… ma devono smetterla di dire queste cose, queste cose non esistono, il ricongiungimento familiare non esiste; ti giri a destra e ti chiedono una cosa, ti giri a sinistra e te ne chiedono un’altra; ci abbiamo provato una volta… abbiamo speso trecento euro per niente, ma trecento euro qui sono mille dinari del cazzo, non sono pochi! Quando vai all’ambasciata a Tunisi, ti gridano: “Che diavolo ci fai qui?”. Non esiste una cosa del genere… visti, ricongiungimenti… sono tutte bugie».
Verità per Yassin, Mohammed, Walid, Iman, Hazem, Zahar, Amin, Ryan, Mohammed, Hamer e la piccola Sachda. Solidarietà alle loro famiglie. (felice rosa)
Suivez le podcast avec les interviews en français et en tunisien réalisées pendant la grève du 18 octobre / A seguire il podcast con le interviste in francese e tunisino effettuate durante lo sciopero del 18 ottobre:
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